Ultimo grande protagonista del programma del Torino Film Festival è Paolo Sorrentino, che anima un’affollata masterclass al Teatro Astra interamente dedicata ai bellissimi monologhi che arricchiscono la sua intera filmografia, quasi sempre interpretati da Toni Servillo.
“Toni mi spiega tutto, cosa significa il film, il suo personaggio. – dichiara Sorrentino sul suo attore feticcio – È un finissimo intellettuale e gli piace speculare sulle cose, che io tutto sommato ho scritto per divertirmi. Lui fortunatamente attribuisce dei risultati che io poi riutilizzo nelle conferenze stampa. È il primo critico, positivo, del film. Io però sono un po’ scettico del parlare di fare le prove. Prima le facevo, ma poi ho capito che tutto quello che accade prima del film non è il film. Perché non è il contesto vero”.
“Mi piace guardare queste scene, perché sono un nostalgico e mi fanno venire in mente perché le ho scritte. – continua il regista, dopo la proiezione di alcune delle scene riguardanti i suoi monologhi – Il monologo de Le conseguenze dell’amore, che forse è troppo lungo, io l’ho scritto perché volevo che dicesse: ‘io ho negoziato l’acquisto di una petroliera’. Forse tutto il film è concepito per arrivare a quella battuta che non ha nessun valore. Però è una cosa che succede, anche ai miei colleghi: due anni di lavoro, milioni investiti, solo per arrivare a una scena o a una battuta. Non so, a me sembrava una qualità davvero improbabile quella di comprare una petroliera, era il mio eroe solo per questo”.
Sorrentino cerca di andare a fondo alle ragioni di questo frequente espediente: “La mia esigenza di fare monologhi non nasce da Fellini, che pure è un mio riferimento, ma più dalla mia passione per la letteratura. Preferisco libri con pochi dialoghi e quindi mi risulta come un lungo monologo. Facendo io film in cui il colpo di scena è inesistente, il monologo mi permette di camuffare come colpo di scena qualcosa che non c’è. Spesso uso i monologhi per fare dei bilanci, per sottolineare che non hanno nessun passo in avanti, che poi è una sintesi dei miei film”.
“Il monologo di Andreotti ne Il Divo non c’era nella prima versione, ma dell’ultima stesura, nasceva dall’esigenza dell’indecifrabilità di Andreotti, il film non rendeva mai possibile esprimere un mio punto di vista sul film e allora l’unico modo che trovai per averlo era uscire dal personaggio e costruire un monologo immaginario. Mi ricordo che quando lo scrissi mia moglie disse, vabbè… moriremo!”
Il regista conclude parlando della presunta impopolarità dei suoi film, dal punto di vista della critica: “È legittimo che possa non piacere un film. Con Loro forse ho sbagliato il tempo, non andava fatto in quel momento là, forse andava fatto tra dieci anni. Ma i miei film di critica sono quasi sempre andati male. Su La Grande Bellezza c’è un equivoco: lo spettatore guarda un film sulle terrazze romane e cerca qualcosa che conosce, cerca una verità. Ma io perseguo l’obbiettivo opposto, io non cerco la verità. Dicevano che Roma non è fatta così e rispondevo che lo sapevo. Ma mi interessa elaborare a modo mio un’idea di Roma che non corrisponde al vero. Come nel monologo di Loro: quella bugia diventa una verità in nome di come lui l’ha sceneggiata. La verità sta lì è come uno la inventa”.
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