Paolo Sorrentino: Andreotti è la porta per entrare nel nostro paese


Una figura indecifrabile e, in chiaroscuro, un intero paese dominato da trame, delitti e cricche incollate alla poltrona, poteri occulti e pacchi di pasta donati agli elettori. Ma Il divo non è solo una storia ad uso di noi italiani. Piace, appassiona e arrovella – e questo non era per niente scontato – anche gli stranieri, che a Cannes hanno bersagliato di domande Paolo Sorrentino, una cosa piuttosto inusuale per i nostri film che passano qui al festival. Brasiliani, francesi, americani e spagnoli alla ricerca del sottile confine tra l’uomo politico e la maschera, mentre una giornalista che viene dalla Romania, paese dalla storia tormentata e in certi momenti criminale, ha promosso il cineasta napoletano, che a 37 anni è già stato due volte in concorso qui al festival: “Fino a ieri era un giovane regista, oggi è un maestro con il suo cinema duro e puro”.

 

Dietro al film, scritto con la consulenza del giornalista Giuseppe D’Avanzo, c’è un mostruoso lavoro di documentazione, un anno per comporre il quadro, e poi per scomporlo con uno stile iperrealista, pieno di creatività, con l’attenzione a inventare e contemporanemente stare dentro la realtà, perché “stavolta non si poteva andare a briglia sciolta”. C’è stato anche un incontro con Andreotti, anzi due, ma lui nega di aver mai visto Sorrentino, come è nel suo stile. “L’ho voluto conoscere per dirgli che volevo fare un film su di lui, mi ha solo replicato che sarebbe stato meglio aspettare la sua morte”. Ora il senatore a vita si è stizzito per la “mascalzonata”: “Rispetto alla sua solita imperturbabilità è un gran risultato e conferma la forza del cinema: un uomo solitamente reticente, stavolta si è sbilanciato”. Non ci saranno azioni legali per fermare la pellicola, che esce il 28 maggio con 300 copie. E non ci sono state pressioni prima o durante le riprese. Però Sorrentino parla di un luogo comune da vincere, l’idea che parlare di Andreotti sia “pericoloso”. Il produttore Nicola Giuliano racconta che “non è stato facile chiudere il progetto. Niente Rai e niente Mediaset. Ma il contributo del Ministero, di Sky, delle Film Commission di Campania e Piemonte, di Eurimages”. “Mentre i privati che abbiamo contattato per il product placement si sono tutti dileguati”, aggiunge Andrea Occhipinti.

Da molto tempo coltiva l’idea di un film su Giulio Andreotti. Perché ci è voluto tanto?
A lungo ho pensato che non si potesse fare e a lungo mi sono censurato. Non era un film facile, perché la biografia di Andreotti è talmente vasta e perché coincide con la storia del nostro paese, anzi è la porta principale per entrarci. Non sono un esperto di politica, ma mi piacerebbe che questo film riaprisse il discorso su anni che sono stati frettolosamente archiviati.

Appunto. Perché nella vasta carriera di Andreotti, sette volte primo ministro, innumerevoli volte al governo, ha scelto di concentrarsi proprio sugli anni ’90?
Sono gli anni di Gladio, di Tangentopoli, dei delitti e dei processi di mafia… Non sono troppo lontani ed è più facile trovare legami con l’oggi. Sono anni cruciali, in cui convergono una serie di cose. Inoltre è un periodo poco esplorato dal cinema. Anche il 1978 e il delitto Moro è stato uno snodo fondamentale, ma di certo molto più raccontato.

La politica italiana appare in una chiave a tratti vampiresca, a tratti gangsteristica, che la rende inquietante e diversa da quella della maggior parte dei paesi europei.
È vero, l’Italia è diversa per la natura occulta del potere e questa è una nostra peculiarità, che forse condividiamo con gli Stati Uniti. In altri paesi si valuta la politica in base al grado di trasparenza, da noi no. Secondo alcuni, i poteri occulti sarebbero legati al clima della Guerra Fredda, ma io temo che persistano.

Il suo modo di raccontare il personaggio di Andreotti mi ha ricordato “L’amico di famiglia”, pur nella totale diversità, per la sua capacità di mostrarne contemporaneamente la nefandezza e l’umanità.
Credo che questa complessità appartenga a tutto il miglior cinema contemporaneo. Non mi piace fare film a tesi e mi interessava mettere a fuoco versanti meno noti della figura di Andreotti, il dolore per Moro, ad esempio. Anche se non era solito usare toni commossi, si dice che quando seppe del rapimento fu preso da conati di vomito. Lui ha sempre fornito di sé versioni contrastanti e due dei testimoni che lo conoscevano meglio, De Mita e Scalfari, l’hanno descritto come una figura indecifrabile. Comunque rifiuto lo schema colpevole/innocente.

 

Sembra che siano le donne a coglierne meglio l’anima: la moglie Livia, la segretaria Enea. E anche Margaret Thatcher e Oriana Fallaci, che lei cita come le due persone che meglio hanno sintetizzato la natura di Andreotti in poche parole.

Le due donne – la moglie e la segretaria – sono due personaggi estranei alla politica. La signora Enea, in particolare, doveva essere quasi una spettatrice di questo teatrino.

Ha restituito tutto il cinismo, il gusto per la battuta icastica che caratterizzano l’uomo pubblico.
Che sia cinico lo dicono tutti. Ama liquidare questioni fondamentali con una battuta.

 

Tutto quello che viene detto da Andreotti nel film è documentato?

Non tutto, ma molto. Però ci sono alcune invenzioni e deduzioni. Per esempio quando dice “le BR dovevano rapire me, Moro era un debole, io sono forte”.

Pensa che la vanità sia una delle molle del personaggio?
Sì, è stato un motore importante. Andreotti si è molto nascosto ma è anche apparso molto. Per lui la popolarità è sempre stata fondamentale, la cosa peggiore che potesse augurare a qualcuno era l’anonimato.

Il riferimento a Elio Petri è inevitabile: “Todo modo” ma anche “Indagine su un cittadino”.
Petri sapeva coniugare il cinema e la sperimentazione con l’attenzione ai temi più urgenti e sapeva guardare i personaggi nelle loro contraddizioni.

 

Leggi l’intervista a Toni Servillo

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23 Maggio 2008

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