Paolo Sorrentino


Pecunia olet. I soldi, contati a mano, spostati da una cassetta di sicurezza all’altra dentro i fustini del Dash, sono veramente l’ossessione di Paolo Sorrentino, il trentacinquenne che molti, compreso Thierry Fremaux, considerano uno degli autori di spicco della giovane generazione. Di nuovo in concorso a Cannes, ma stavolta più consapevole e dunque più nervoso, ha realizzato un film, L’amico di famiglia, che si sforza di creare un’estetica del brutto trovando il suo materiale in una provincia italiana moralmente devastata dove si va dall’usuraio per giocare al bingo, per rifarsi il seno o per invitare trecento sconosciuti a un inutile pranzo di nozze. È questo l’universo “umano” di un’opera disturbante che guarda ai Fratelli Coen ma anche al classico Fellini, cercando di stupire per la carica surreale e iconoclasta. Il merito, bisogna dirlo, va anche a Giacomo Rizzo, l’attore napoletano che incarna il fetido strozzino Geremia: capottino bisunto, con l’unghia del mignolo spropositata e un braccio ingessato chissà perché, possiede un milione di euro ma vive come un barbone con la vecchia madre-arpia inchiodata al letto. Come nell’ Imbalsamatore di Matteo Garrone, la Bestia s’innamora di una creatura giovane e angelica, ma corrotta dall’ambizione (Laura Chiatti), mentre a Fabrizio Bentivoglio è affidato il ruolo di un malinconico cow boy dell’Agro Pontino che scardinerà il meccanismo virtualmente infinito del prestito a strozzo. Accolto con interesse e applaudito, L’amico di famiglia può aver spiazzato qualcuno, ma Sorrentino in qualche modo se l’aspettava: “E’ un film che può e deve dividere: perché è più estremo, deciso e ardito del precedente”.

P.SorrentinoCosa l’affascina nella rappresentazione della bruttezza?
Fellini disse una volta che la bellezza alberga nello squallore. Ecco, io ho tentato di mostrare in maniera magnifica lo squallore. Il personaggio di Geremia è un concentrato di qualcosa che condividiamo tutti: cerchiamo di far vedere agli altri un aspetto buono e rassicurante, ma è solo apparenza. Spesso, al contrario, chi appare mostruoso rivela un’umanità inattesa.

Lei ama moltissimo il cinema americano, ma stavolta ha citato soprattutto Fellini come punto di riferimento.
Mi sono ispirato in maniera irriverente a Fellini, che in Roma mette in scena una galleria di mostri per me bellissimi. Invece non avevo in mente Brutti, sporchi e cattivi di Scola, anche se qualcuno ci ha pensato.

Il film, almeno per una buona metà, sembra rinunciare allo sviluppo narrativo per privilegiare la descrizione dell’ambiente e delle figure che lo popolano.
Le trame, diciamo la verità, sono sempre le stesse, sono ripetitive e noiose. Mi affascina di più l’aspetto stilistico. Frequento una dimensione barocca e pericolosa, che avvicina ironia e dramma. Se Le conseguenze dell’amore era un film in sottrazione e quindi più facile, questo rischia di più. Carmelo Bene diceva che l’unica immagine non volgare è quella che eccede.

Ha scelto l’Agro Pontino per gli echi fascisti di città sorte dalla bonifica come Latina, Sabaudia o Pontinia?
Sono città relativamente nuove che non hanno una storia. Nel film poi sono ancor più vuote perché ho chiesto alla produzione (Indigo Film con Fandango e Medusa e la francese Babe Film) di togliere anche le auto parcheggiate. Per me le auto parcheggiate sviliscono l’immagine. Inoltre tutti gli esterni sono illuminati – Luca Bigazzi è ormai un collaboratore di cui non posso fare a meno – e anche questo toglie realismo.

Che ricordo ha del set del “Caimano”, dove interpretava un piccolo ruolo molto divertente?
La cosa che mi è rimasta impressa di quella giornata è che Moretti anche quando deve interrompere le riprese per parlare con gli attori non chiama lo stop e la pellicola continua a scorrere. Tutto quello spreco di pellicola mi dava terribilmente fastidio e mi ha fatto capire quanto sia più ricco di me…

Cosa pensa della selezione italiana a Cannes?
È significativo che qui ci siano film italiani che osano sul piano del linguaggio. Mi riferisco soprattutto a Moretti, perché Bellocchio non l’ho visto. Per fortuna ci sono autori che provano a sperimentare e scelgono di fare un film anziché, come spesso succede nel nostro cinema, un’ operazione.

Ritiene che questo film prosegua in qualche modo il discorso sull’amore del precedente?
Non lo vedo come Le conseguenze dell’amore 2. Qui i sentimenti sono solo apparenti e tutti i personaggi sono mossi esclusivamente dal denaro: la ragazza come il falso amico interpretato da Fabrizio Bentivoglio.  

autore
25 Maggio 2006

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