PAOLO SCARFÒ

Nella sezione Nuovi Territori non si sa mai cosa possa accadere. Il pubblico entra in sala, generalmente la Perla, attratto dal senso di novità o forse perché non trova posto nelle altre proiezioni. Capita così che si assista un po’ impreparati a qualche lavoro, come è accaduto per L’ultimo piano, primo lungometraggio del regista Paolo Scarfò. Un film in digitale che l’autore definisce come “un viaggio, doloroso e ancestrale, verso un livello superiore di percezione”.
Meriterebbe un discorso serio la sperimentazione in Italia. Per ora ci limitiamo a trascrivere le parole di un regista proveniente dai videoclip (Pino Daniele, Eros Ramazzotti, Almamegretta) che ha voluto cambiare rotta in direzione di una ricerca formale esasperata, nella quale la parola viene surclassata dalla significatività degli spazi fisici e dalle movenze dei corpi (molto simile in questo a Tsai Ming-Liang): “Ho lavorato sui paesaggi mentali e sul non detto, certamente un’impresa difficile. Più andavo avanti e più mi rendevo conto che gli spazi fisici esprimevano dei chiari ed evidenti significati. In futuro, vorrei rappresentare paesaggi diversi sperando che il pubblico abbia la pazienza di soffermarsi, perdere un po’ di tempo e vedere quello che, a ritmi più veloci, non può riuscire a vedere”.