“Di questo ti prego, Signore: dammi la forza di rendere il mio amore utile e fecondo al Tuo servizio; di non rinnegare mai il povero; di non piegare le ginocchia davanti all’insolenza dei potenti”. Una citazione di Tagore apre il sito di don Vitaliano della Sala e condensa forse tutta la filosofia del prete “new global”, un sacerdote che alcuni vorrebbero scomunicato e altri considerano un mito. Paolo Pisanelli gli ha dedicato il documentario Don Vitaliano. Nothing but a priest.
Prodotto da Domenico Procacci, Francesca Cima e Nicola Giuliano, passato al 55° festival di Locarno, è ora in concorso al Festival dei Popoli di Firenze, al Regus London Film Festival e a Visioni Italiane di Bologna.
In cartellone dal 22 al 28 novembre al Politecnico Fandango di Roma, è stato selezionato anche per il Documentary Film di Amsterdam, per le Giornate del Cinema Documentario di Napoli (29 novembre) e per il Maremma Doc Festival di Pitigliano (6 dicembre).
Che cosa ti ha colpito di don Vitaliano?
L’ho conosciuto nel luglio 2000, in occasione del World Gay Pride su cui ho girato il documentario Roma a.d. 000. E’ stato l’unico prete a salire sul palco pronunciando un discorso molto forte di sostegno al Pride e contro la posizione del Vaticano. Poi sono andato ad intervistarlo nella sua parrocchia a S. Angelo a Scala, provincia di Avellino. E’ una figura simbolica, originale e fuori dagli schemi: è attivo nel movimento no global, ha girato il mondo nei luoghi del conflitto ma mantiene un rapporto fortissimo con il suo paese dove è molto amato. Insomma, ha una grande capacità di far comunicare mondi diversi, di catalizzare l’attenzione sulle cose che non vanno nel nostro pianeta.
Nel film le interviste al prete sono ridotte all’osso…
Si. Lo si vede soprattutto in azione perché ho voluto raccontarlo con un taglio il più possibile cinematografico. Ho lavorato sul progetto per un anno e mezzo a partire dal G8 di Genova 2001. Qui ho girato 20 ore di immagini fortissime poi ridotte a 20 minuti nel montaggio. Ma il film procede a ritroso: comincia infatti con l’episodio della lettera ricevuta da Vitaliano nel marzo 2002, in cui l’abate gli intima di lasciare la sua parrocchia. Genova arriva alla fine.
Dici che don Vitaliano è una figura simbolica. Come hai fatto ad evitare l’agiografia?
Ci sono riuscito perché lui non è un eroe ma una persona coerente che crede nel Vangelo e lo interpreta in modo preciso. Nel ritratto emergono anche le sue incertezze di fronte ai divieti del Vaticano. Citando don Milani, ripete sempre che “L’obbedienza non è più una virtù”. Così il mio è anche un film sul coraggio di disobbedire.
Dopo molti documentari hai intenzione di fare il salto verso il lungometraggio di fiction?
Sì. Ma non lo definirei un salto perché considero il mio documentario film a tutti gli effetti. Mi hanno permesso una grande libertà creativa nel raccontare ciò che volevo. Continuerei se le condizioni produttive italiane non fossero così ristrette. Ora sto scrivendo la sceneggiatura per un lungometraggio: riguarderà ancora temi sociali. Mi piacerebbe realizzarlo per Fandango ma non ci sono accordi precisi. Immagino uno stile di regia vicino a quello del documentario: ricco di improvvisazione e a stretto contatto con i personaggi.
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