Non era facile far saltare i Buddha Bamiyan. Per distruggere quelle statue giganti, alte dai 35 ai 53 metri, i talebani nel marzo del 2001 hanno dovuto usare tonnellate e tonnellate di tritolo. Impresa ardua, eppure riuscita, fotografata da tutte le agenzie stampa internazionali. Qualche giorno dopo il Ministero della Repressione del vizio e la Salvaguardia della virtù prende di mira la memoria cinematografica dell’Afghanistan. Ci vuole un attimo: si entra nella sede dall’Afghan Film a Kabul e, si sa, la celluloide è altamente infiammabile.
Ma i talebani non sono riusciti a portare a termine quest’azione. Grazie a un piccolo trucchetto otto dipendenti della “Cinecittà” locale sono riusciti a nascondere oltre 2600 negativi.
E’ quanto raccontano i primi 10 minuti de Il piccolo gioco, filmato a metà tra fiction e documentario realizzato in DVcam da Paolo Grassini, Beniamino Natale e Timur Hakimiyar lo scorso aprile. Il piccolo gioco, già passato al Festival di Locarno, sarà proiettato nell’ambito della rassegna “Asiatica film mediale”, lunedì 18 novembre alle 19.00 al teatro Ambra Jovinelli di Roma.
Come sono andate le riprese a Kabul?
Abbiamo girato per quattro settimane. Oltre a me e Beniamino c’era un traduttore. Abbiamo chiamato otto attori afgani per girare le scene di fiction. Erano molto sorpresi di esser pagati per il loro mestiere. Da sette anni, da quando l’Afghanistan vive sotto il regime dei talebani, questi attori non avevano potuto più lavorare: recitare è un reato gravissimo. L’immagine è sinonimo di idolatria.
Ci sono attrici nel cast?
No, sono tutti maschi, ma in un altro segmento del documentario intervistiamo Turpikai Osnatanka, un’attrice afgana molto brava scappata nel ’92 dal suo paese perché le avevano sparato alle gambe. La recitazione per gli uomini è un reato gravissimo, per le donne è un reato inconcepibile. Turpikai ha lavorato nei film di Turialai Shafag, regista afgano considerato un maestro nel suo paese. Criminals fu invitato alla fine degli anni ’80 al Festival di Cannes, ma non ci arrivò mai per un divieto espresso del governo di allora.
Cosa racconta Turpikai?
La sua vita da profuga in giro per il mondo, poi il ritorno nel suo paese. Avevamo appena finito di intervistarla quando lei ci richiamò: qualche giorno dopo il nostro incontro aveva recitato in uno spettacolo teatrale organizzato dall’Università di Kabul, la pièce era passata in televisione per qualche minuto. La conseguenza è stata immediata: l’hanno riempita di botte. Siamo tornati a intervistarla. Aveva la faccia gonfia e piena di lividi.
Non è la prima volta che gira documentari a Kabul.
Nel 2000 abbiamo realizzato Under the Taliban. All’epoca, per entrare nel paese abbiamo fatte carte false. Un pakistano per rimediarci i visti andò a pregare in moschea con il primo segretario dell’ambasciata talebana a Islamabad. Solo così abbiamo ottenuto il lasciapassare.
“Il piccolo gioco” è stato proiettato a Kabul?
No. E’ previsto che io faccia una prima, ma per il momento è un po’ complicato. La regia è firmata anche da Timur, bravo regista afgano e operatore di Shafag.
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