Arriva in sala l’11 febbraio, a un passo dalla festa degli innamorati, ma è difficile dire che trionfi l’amore nella malinconica e amara commedia Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, al suo decimo film. Basta infatti uno smartphone perché una cena di tre coppie più un single, amici di lunga data, si trasformi nell’arco di una serata in un terribile gioco al massacro.
Tutta colpa di Eva (Kasia Smutniak) convinta che tante coppie si lascerebbero se l’uno controllasse il contenuto del cellulare dell’altro. I padroni di casa sono Rocco (Marco Giallini), un chirurgo plastico dolce e sensibile, ed Eva, una psicologa apprensiva, nonché genitori di Sofia (Benedetta Porcaroli), adolescente in rotta con la madre. Il loro matrimonio sembra aver perso smalto. Il contrario per Bianca e Cosimo (Alba Rohrwacher e Edoardo Leo), una coppia da poco sposata e innamorata: lei veterinaria, timida e riservata, lui tassista pronto a qualsiasi nuova avventura lavorativa. Lele e Carlotta (Valerio Mastandrea e Anna Foglietta) sono una coppia che si trascina stancamente: lui funzionario di una grande azienda privata, lei ha lasciato il lavoro per la famiglia e i due figli. Infine, c’è Peppe, (Giuseppe Battiston), insegnante di ginnastica, licenziato per esubero. La sera in cui si svolge la cena avrebbe dovuto presentare agli amici la sua nuova fidanzata ma, all’ultimo momento, si presenta da solo perché lei, dice Peppe, si è ammalata.
Alla fine il gioco di rendere pubblici telefonate e messaggi dello smartphone smaschera rapporti apparentemente felici e consolidati, portando alla luce intrighi, tradimenti e segreti sconcertanti e sgradevoli. Tutti i personaggi sveleranno una parte di sé nascosta, un ‘non detto’, per ritrovarsi alla fine ‘perfetti sconosciuti’.
Il film, distribuito da Medusa in più di 500 copie, è stato girato in sequenza nell’arco di due mesi utilizzando un’unica location. L’AD Giampaolo Letta anticipa che ci sono già 5 richieste per farne un remake e provengono da Francia, Spagna, Germania e dall’America Latina. Inoltre il film conoscerà presto una versione teatrale come fa sapere Marco Belardi di Lotus Production.
Genovese quale è stata l’idea di partenza?
Raccontare la vita segreta delle persone, quello che c’è dietro, quello che non confessiamo o non possiamo confessare. Non riuscivo a trovare un modo per raccontare questa idea, oggi è difficile essere originali. E’ possibile scegliendo un punto di vista e allora è venuta l’intuizione del cellulare. In verità il film all’inizio aveva preso una strada diversa e questo gioco del cellulare sul tavolo era in origine solo una scena del film. Poi tra di noi ci siamo detti: e se continuasse il gioco e se il film fosse questo gioco? E se il cellulare diventasse il protagonista del racconto? Più si andava avanti e più le idee venivano e abbiamo scritto la sceneggiatura in poco tempo, tutto è venuto di getto, di pancia. Insomma il cellulare era uno strumento fertile per raccontare il nostro presente.
Lei pensa che come si dice nel film che “noi siamo tutti frangibili”?
E’ molto vero e il termine mi piace. Fino a 20 anni fa i nostri segreti, i nostri lati oscuri rimanevano dentro di noi, custoditi nella nostra mente. Nel momento in cui li affidiamo a qualcuno, o a qualcosa come oggi è il cellulare, quello diventa il nostro tallone d’Achille, diventiamo più fragili. E per vita segreta non intendo solo amanti e tradimenti, ma tutto quello che vogliamo nascondere e che non ci va di raccontare.
Perfetti sconosciuti richiama l’impianto teatrale di film come Dobbiamo parlare di Sergio Rubini e Il nome del figlio di Francesca Archibugi?
Direi che ha un’impostazione teatrale in quanto girato in un unico ambiente. Volevamo che i personaggi stessero intorno a un tavolo e lo spettatore fosse l’ottavo commensale. Il posto a tavola vuoto, cioè quello di Lucia che è assente, è per il pubblico che partecipa alla cena.
Quanto c’è di Ettore Scola in questo film?
Di Scola e di quel modo di fare commedia spero che ci sia l’essenza della commedia che è insieme sorriso, dramma e anche tragedia. Penso a La grande guerra di Monicelli con i due simpatici protagonisti che alla fine muoiono. L’importante è non fare confusione con il film comico, nel quale c’è solo la risata.
Il genere ‘dramety’ è forse più difficile da praticare rispetto al film comico?
La commedia è difficile perché si tratta di un genere complesso, contiene un insieme di generi. Nel mio film nel giro di un’ora e mezzo cambi genere due, tre volte. In Italia si fanno tanti film comici, ma ci sono anche autori che hanno diretto commedie meravigliose, autori con i quali sono cresciuto. Penso a Virzì con Ferie d’agosto e a Salvatores con Marrakesh Express e Mediterraneo. Ora se ne fanno di meno di commedie perché anche autori come loro hanno smesso. E poi l’aprioristica convinzione che il comico faccia botteghino ha tolto spazio alla commedia un po’ più sofisticata.
Come ha scelto i ruoli per gli attori?
Abbiamo immaginato prima chi potesse fare e cosa e loro, gli interpreti, sono esattamente i personaggi che avevamo immaginato. Il film è stato molto raccontato prima di scriverlo, e addirittura nella prima stesura i nomi erano già quelli degli attori.
Ha voluto anche mettere in discussione il mondo dei social, lei che, tra i primi, ha utilizzato ‘periscope’ per mostrarci le riprese in diretta?
Non punto il dito sui social, sono una realtà che fotografo, semmai sono un piccolo mezzo per raccontare la realtà, le vite delle persone. Accusatorio è il modo in cui si utilizzano i social.
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