Paolo Genovese drammatico e fuori dagli schemi

"Dopo il successo di Perfetti sconosciuti ho cercato con The Place di dare al pubblico quello che non conosce e che può piacergli”. Il regista si è ispirato alla serie americana The Booth at the end


ROMA. “Folgorato” dalla serie americana The Booth at the end (2010/2012), proposta da Netflix, Paolo Genovese l’ha declinata in un film drammatico e fuori dagli schemi, The Place, evento speciale della Festa di Roma, che presto sarà in sala, il 9 novembre, in 500 copie distribuite da Medusa.
L’ottima riuscita al box office del precedente Perfetti sconosciuti (oltre 17 milioni) ha consentito a Genovese di sperimentare un film diverso e lontano dalle commedie fin qui dirette. “Dopo il successo il rischio era di realizzare un film parente stretto di Perfetti sconosciuti e invece, citando i fratelli Taviani, ho cercato di dare al pubblico quello che non conosce e che potrebbe piacergli”.

Come nella serie tv un’unica ambientazione e un uomo misterioso (Valerio Mastandrea) tutto il giorno seduto in fondo a un’accogliente bar, chiamato The Place, con accanto un’agenda fitta di appunti. Sempre allo stesso tavolo riceve a qualsiasi ora le visite dei suoi ‘clienti’ che lo cercano perché realizzi i loro desideri, a volte impossibili. L’uomo senza nome chiede a loro in cambio di compiere un’azione proporzionata al desiderio espresso. Per ottenere quel pezzo di felicità i clienti sono disposti a tutto, a compiere anche gesti terribili, grandi cattiverie, mentre le loro vicende s’intrecciano.
Una volta stabilito il patto, non c’è la possibilità di negoziare l’accordo, se non quella di rinunciare. L’uomo non obbliga, lascia a loro la scelta di stabilire che cosa è il bene e che cosa è il male, osserva senza giudicare i comportamenti etici dei singoli. Annota su un’agenda le richieste e quel che i clienti raccontano ogni volta che si ripresentano davanti a lui, tra incertezze, ripensamenti, colpi di scena.

C’è il padre (Vinicio Marchioni) che vorrebbe la guarigione del proprio figlio malato di cancro, la donna anziana (Giulia Lazzarini) l’uscita del marito dall’abisso dell’alzheimer, la giovane suora (Alba Rohrwacher) sentire di nuovo Dio, la moglie (Vittoria Puccini) scoprire ancora il marito innamorato, il non vedente (Alessandro Borghi) riavere la vista, il poliziotto (Marco Giallini) ritrovare l’amore del figlio, la ragazza (Silvia D’Amico) essere più bella, il meccanico (Rocco Papaleo) avere un’avventura con la porno star del manifesto appeso in officina, il figlio del poliziotto (Silvio Muccino) non odiare il padre.
La cameriera (Sabrina Ferilli) è l’unica persona che ha un rapporto alla pari con lo sconosciuto; attratta dai suoi silenzi e dalla sua riservatezza, gli parla per capire chi sia e quale il suo lavoro. Lentamente scalfisce la corazza di quest’uomo malinconico e impassibile, che forse ha un po’ di compassione nei confronti degli individui che siedono al suo tavolo.

Il film ha in parte gli stessi personaggi della serie tv, sono stati tolti alcuni più vicini alla cultura Usa – l’artista, il claustrofobico – e aggiunti il non vendente e la moglie innamorata. “Ho arricchito i personaggi e ho intrecciato di più le loro storie. La difficoltà più grande è stata mettere un finale a tutte le vicende individuali e al film”, dice il regista.
Un fil rouge lega The Place ha Perfetti sconosciuti, a cominciare dallo sguardo sulla parte più nascosta, meno conosciuta di noi stessi, e una certa atmosfera dark. C’è poi la coralità del racconto grazie ai numerosi personaggi. “Mi piace narrare da più punti di vista – afferma Genovese – E allora tante voci, tanti corpi, che però in questo film non stanno quasi mai insieme, tranne Mastandrea che è il personaggio fisso. La coralità è qui fondamentale per identificarsi in etiche diverse”.

Allo spettatore infatti il compito di stabilire quale è l’asticella della nostra morale, misurandosi con punti di vista differenti. “Nell’epoca dei social siamo molto giudicanti, ma questo film ci interroga in modo più profondo”.
Ma chi è l’uomo misterioso, senza nome impersonato da Mastandrea? “Ognuno può interpretarlo. Non lo ritengo un’entità demoniaca o mefistofelica, forse è lo specchio degli altri – risponde l’attore romano –  Un uomo tormentato, inquieto e inquietante che ti ‘obbliga’ a decidere cosa è meglio, che ascolta il dolore altrui”. Un personaggio che ha spinto l’attore a riflettere su come aiutare gli altri: autodeterminandoli.
Per Genovese questo personaggio è del tutto neutrale, non interferisce sulle decisioni prese dagli altri che derivano dal libero arbitrio. E a una lettura più profonda si avverte il sentimento di simpatia e pietà che il personaggio prova verso i suoi simili: “Non è Dio, non è la nostra coscienza, perché ognuno si confronta innanzitutto con se stesso”.

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