Tutto sembra fuorché un’opera d’esordio, e soprattutto in un genere – il fantasy – che in Italia ha veramente troppo poco respiro rispetto a quello che meriterebbe, specie considerando operazioni come questa. Con il budget di una bella automobile, Gaudio mette su una storia complessa e avvincente, fatta di suggestioni e atmosfere oniriche, alternando live-action e animazione a passo-uno: dentro ci sono Nietzsche, Rousseau (a partire chiaramente dal titolo, ispirato a una sua opera autobiografica) ed Edgar Allan Poe, filosofia e allegoria, ma anche La storia infinita, Gremlins, Harry Potter e Michel Gondry, per raccontare il percorso umano e indefinito di uno studente, Theo (Lorenzo Monaco), ossessionato dalle opere incompiute. Nel cast anche Luca Lionello, Domiziano Cristopharo, Nicoletta Cefaly e Fabrizio Ferracane. Il film ha già ricevuto molti premi, alla Semaine du Cinéma Fantastique di Nizza, al Boston Science Fiction Film Festival, al Fantafestival e al TOHorror di Torino. Ma in Italia sarà difficile promuoverlo.
Complimenti per il coraggio. Come mai proprio questa scelta?
Nasce dalla mia passione per gli effetti speciali e l’animazione, con cui sono cresciuto. Idolatravo Stan Winston e Ray Harryhausen, ho sempre pensato che la mia strada fosse quella. Poi mi sono appassionato al cinema di Tim Burton, di Terry Gilliam, di Richard Donner, di Joe Dante, e a tutto ciò che ruotava attorno alla fantasia e all’avventura. Mi sono convinto che potevo fare anch’io il regista, col piccolo dettagli di vivere a Cosenza e non a Hollywood.
E’ stato difficile muovere i primi passi?
Altroché. E’ stato un fiasco. Ero riuscito a farmi finanziare un corto realizzato totalmente con il green screen, doveva essere un omaggio alla lanterna magica che ha generato il cinema, e al contempo una specie di Roger Rabbit alla rovescia, con attori reali che interagivano con un fondale cartoon. Le riprese andarono benissimo, ma il risultato finale era improponibile. Ho dovuto bloccare tutto. Non chiedetemi perché, dopo aver capito che non ero riuscito a realizzare un film di 12 minuti, mi sono reso conto che ero pronto a realizzarne uno di 90.
Come si è sentito alle prese con un’avventura così ambiziosa?
Per citare il titolo di un film, è stato un ‘viaggio allucinante’. Ma anche fantastico. Lavoravo sugli ambienti: dicevo, mi serve uno scantinato pieno di alambicchi, una bottega gotica piena di cianfrusaglie. E ho detto: proviamoci. Pensavo di farne una serie cartoon a episodi, ma ci vuole davvero troppa forza psicologica. Un po’ si soffre. Ogni regista è la sintesi di quello che vede da bambino, come dice Peter Jackson, e io sono cresciuto con il fantasy. Il difficile è convincere gli altri. C’è il pregiudizio: in Italia non si può fare, lascia stare, fallo fare agli americani. Gli stessi problemi che ha avuto Garrone. Filologicamente non possiamo farli esattamente come gli americani, forse, ma complessivamente si può, e anche senza investimenti folli. Ci vuole solo il coraggio, e il gap si colma con la professionalità. Non alimentiamo l’idea che le cose le debbano sempre fare gli altri.
Quali sono i suoi animatori di riferimento?
Su tutti Phil Tippett, lo seguo da sempre: da Star Wars a RoboCop. Quando vado a vedere i nuovi film con effetti speciali, ammetto che ho nostalgia di un tocco come il suo.
Lei usa il “passo uno” in maniera trasversale, dalla plastilina alla carta alla cosidetta ‘pixillation’, ovvero la sequenza di immagini fisse che sembrano in movimento…
Alterno i materiali a seconda delle esigenze narrative, anche se alcune cose chiaramente hanno subito le conseguenze di un budget limitato. La plastilina in particolare per me era fondamentale. Dovevo rappresentare quello che il protagonista legge in maniera fragilmente infantile, e i manichini mi sono stati funzionali. Parlavo di senso di colpa, di fallimento, della volontà di non giungere mai a una conclusione. Questo per me è un sentimento molto tenero e il materiale doveva rendere questa sensazione. Gran parte del lavoro si deve a Leonardo Cruciano e ai ragazzi del suo workshop. Sono tutte tecniche tradizionali, che si utilizzavano un tempo. Il digitale lo abbiamo usato per nascondere, cancellare e coprire, più che per creare. Poi c’è una parte del film che si ambienta nel mondo reale e contemporaneo, anche lì però volevo dei rimandi a un’atmosfera fantastica. Diciamo che volevo rendere un contesto da realismo magico.
Senza rivelare troppo, il finale resta in sospeso…
E del resto l’incompiutezza è il tema del film. Alle volte la creatività non riesce ad arrivare a termine. Ci si mette di mezzo la vita. Alle volte scontiamo il peso delle generazioni precedenti, che ci schiacciano. In una scena del film un bambino si carica sulle spalle il corpo di un anziano. E’ il simbolo di questo concetto.
Al film è legata anche una Mostra, alla Sacripante Gallery di via Panisperna a Roma…
Non mi prendo meriti, in quel caso si deve tutto alla curatrice Rossana Cabbi. Ci sono tavole di giovani artisti che proseguono il concept del film, diciamo che può essere considerata un seguito, o il suo lascito. Un viaggio segue delle regole ma deve essere in grado di tradirle. In fondo il mio film fa lo stesso. Apre il 17 novembre alle 18.30, poi ci sarà una proiezione di 20 minuti di scene dal film e parlerò con il pubblico.
Da dove viene questa passione per l’incompiutezza?
Dai miei studi di filosofia. Con alcuni colleghi ci soffermavamo su come, dal punto di vista della fruibilità, un’opera incompiuta fosse affascinante, lasciando più libero arbitrio nell’immaginazione. Tutti i grandi ne hanno una, Kafka, Flaubert, Dostoevskij. Quella di Rousseau sinceramente per me non è nemmeno poi così bella, anzi, è il punto meno interessante della sua produzione. Ma ha un titolo meraviglioso: il passeggiatore solitario è una figura cara alla filosofia, anche a Nietzsche, per esempio, perché il pensiero è appunto una camminata, un viaggio. E lo spettatore deve viaggiare con i protagonisti, perdersi nel bosco, fallire e restare a metà con loro, se necessario.
Anche il montaggio sembra molto decostruito, con una forte alternanza di temi e piani narrativi. Ed è in linea con il concept del film. Lo aveva già pensato così in sceneggiatura?
Sostanzialmente sì, era tutto scritto. Ma come sempre avviene in fase di montaggio qualcosa si aggiunge, qualcosa si toglie. E’ la fase di lavorazione che preferisco. Massimiliano Cecchini ha una caratteristica. Non frequenta il set e non si affeziona alle scene, così non ha problemi a tagliarle di sana pianta. Mi ha tagliato un piano sequenza di quattro minuti nel bosco, ma ha fatto un lavoro meraviglioso.
Sta già vendendo il film all’estero?
Per ora in Messico, dove abbiamo fatto un ottimo passaggio al festival ‘Morbido’.
Sta per uscire il settimo capitolo di Star Wars. La trilogia del 2000 è stata criticata per il massiccio uso di computer graphics. Cosa si aspetta da questa nuova?
Sinceramente, cose molto belle. Non è trapelato molto ma quello che ho letto e visto mi piace molto, e credo che Abrams si sia ricordato della trilogia originale. Alcune scene che ho visto, ambientate in un mercato, mi ricordano molto la cantina di Mos Eisley di episodio IV. Certo Yoda così pupazzoso, animato da Frank Oz, difficilmente lo rivedremo, e dobbiamo metterci in testa che i film non sono fatti per la nostra generazione ma per i ragazzi di oggi. Il loro Millennium Falcon deve fare faville, non potrà essere un modellino in scala – bellissimo, tra l’altro – come quelli che piacevano a noi. Lo stesso vale per Jurassic Park. Chi ha amato il primo film avrebbe voluto rivedere almeno qualche richiamo a quelle vecchie tecniche anche in Jurassic World. Ma non potevo certo aspettarmi i velociraptor animati a passo uno. Tra l’altro, il digitale ha iniziato ad affermarsi proprio con Jurassic Park, praticamente lo hanno inventato lì. Per me c’è ancora spazio anche per l’artigianato, la computer graphics è bellissima, adoro Pacific Rim, lo rivedo spesso e me lo risparo spesso nel cervello, però ogni tanto ci starebbe anche qualche riferimento all’animazione a passo uno o ai cari vecchi animatroni. Il limite è solo nella fantasia, almeno per gli americani, che non hanno problemi di budget.
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