“Credo proprio che ci saranno reazioni, perciò abbiamo deciso, su consiglio degli avvocati, di fare una prima pubblica di Segreti di stato a Pisa, così che il tribunale di questa città sia competente per qualsiasi vicenda giudiziaria”. Paolo Benvenuti racconta con dovizia di particolari il suo film in Concorso a Venezia, costato 6 anni di ricerche e scritto insieme alla moglie Paola Baroni.
L’argomento è di quelli destinati a far discutere appena finiti i titoli di coda: la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 in cui vennero uccisi 11 contadini siciliani. Fino ad oggi la versione accreditata è quella dell’eccidio mafioso, opera del bandito Salvatore Giuliano. L’ipotesi avanzata da Benvenuti è che fossero presenti quel giorno altri tre gruppi di fuoco, i veri colpevoli della strage, mentre gli uomini di Giuliano spararono in aria. A uccidere sarebbero state dunque le armi del bandito Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda dall’ispettore Messana, le lanciagranate dei tiratori scelti, ex membri della X Mas di Junio Valerio Borghese, guidati da Gaspare Pisciotta e quelle dei mafiosi di San Giuseppe Jato.
E il regista prova anche, con un simbolico mazzo di carte, che il vento scompiglia all’improvviso nelle sequenze finali, a dare un volto a quanti sarebbero coinvolti direttamente e non in quella strage, tra questi: il ministro degli interni Mario Scelba e quello dei lavori pubblici Salvatore Aldisio, i servizi segreti americani di allora l’Oss (l’Office of Strategic Service) in contatto con la mafia dai tempi dello sbarco alleato in Sicilia, il Vaticano.
Dal ‘500 di “Gostanza da Libbiano” al dopoguerra di “Segreti di stato”…
Gostanza da Libiano chiude la trilogia dedicata al rapporto tra uomo e potere religioso, iniziata con Il bacio di Giuda e proseguita con Confortorio. Il film su Portella della Ginestra appartiene invece all’altro mio filone di ricerca: il rapporto tra criminalità organizzata e potere politico, già analizzato in Tiburzi. Alla base come sempre un lavoro sistematico di raccolta e analisi di documenti d’archivio, ricostruendo nel modo filologicamente più corretto la situazione, a cominciare dai luoghi di detenzione.
Le fonti?
Le interviste fatte dal sociologo Danilo Dolci, nel 1956, agli uomini della banda di Giuliano rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone; le carte in possesso della Commissione Antimafia desegretate nel ’98 dall’allora presidente Ottaviano Del Turco, ma l’intera documentazione è segreto di stato fino al 2019; poi i 13 faldoni del processo di Viterbo depositati presso il Tribunale di Roma che ho potuto consultare e fotocopiare unendomi a una coppia di storici di Viterbo che stanno scrivendo un libro; e infine i documenti degli archivi dell’Oss a Washington. Alla fine l’ipotesi è che dietro Portella della Ginestra ci fosse un progetto politico internazionale. A pochi giorni dalle elezioni regionali siciliane che vedono il successo delle sinistre, quella strage è in fondo un avvertimento per Togliatti e il Pci: il vostro ruolo politico è solo quello di partito d’opposizione democratica. Non a caso negli anni ’70 la crescita di consensi al Pci di Berlinguer farà i conti con lo stragismo.
Fu Danilo Dolci, nel ’96, a spingerti a occuparti di questo mistero d’Italia?
Ho promesso a Dolci, prima della sua scomparsa, che le vittime di Portella avranno il risarcimento che mai lo Stato ha riconosciuto loro, ritenendo quella strage non politica ma opera di banditi.
C’è un precedente autorevole nel “Salvatore Giuliano” di Rosi?
Non ho mai pensato a quella pellicola di Rosi, che del resto è il film che si poteva fare nel ’60, così come il mio è quello che si può realizzare nel 2003. Ho affrontato la vicenda come se si svolgesse nel ‘400, con una novità: la presenza di alcuni testimoni ancora vivi, una fonte decisiva per quel confronto tra tradizione orale e documento scritto. Ho intervistato i testimoni e i feriti di allora, e c’è l’intenzione con Domenico Procacci di portare a Venezia alcuni di questi personaggi.
Dunque un film d’inchiesta, di controinformazione?
E’ un film metafisico, surreale, somiglia a quei film americani degli anni ’50 che hanno per protagonista l’avvocato alla ricerca della verità. Del resto il colore del film, ambientato tra il 1952 e il 1954, dal primo tentativo fallito di uccidere Pisciotta alla sua esecuzione, è quello delle prime pellicole a colori della Ferrania del tempo. Non ci sono chiaroscuri, è un film luminosissimo, che porta la luce laddove non è mai arrivata.
Nel cast figurano attori, tranne Catania, poco noti.
Vado raramente al cinema, i miei registi preferiti sono Gianni Amelio, Ciprì e Maresco. Ho chiesto le fotografie di attori siciliani, perché volevo i volti degli anni del dopoguerra. Antonio Catania, che fino ad allora non conoscevo, somigliava in modo impressionante all’avvocato di Pisciotta. Sergio Graziani, il professore, è doppiatore e attore di teatro, Aldo Puglisi il seduttore di Sedotta e abbandonata rappresenta un omaggio a Pietro Germi; David Coco, è un attore catanese di teatro molto somigliante a Pisciotta. E poi i contadini siciliani hanno dato il loro volto ai testimoni della strage. Il film non ha protagonisti, è un film corale e l’avvocato/Catania è un po’ il Virgilio che ci accompagna dentro la storia.
E la musica?
E’ ridotta al minimo: frammenti di canti contadini d’epoca, per esempio il Duo di Piadena, e una nenia siciliana per il finale. Il film è girato in presa diretta e la musica è semmai il fondo sonoro che restituisce le atmosfere dell’epoca. Grazie al tecnico Fabio Melorio ho ricercato i suoni di quegli anni ’50 (tram, sirene di fabbrica) negli archivi dei vecchi fonici, suoni che non distinguiamo più nella rumorosità dell’oggi.
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