Ha la sicurezza delle pioniere Paola Faloja, regista di Le pioniere della macchina da presa un documentario Rai presentato al Festival internazionale Cinema delle donne di Torino (1/9 marzo). Ma ha anche la sicurezza dell’attrice sul palcoscenico e la forza della scultrice, è diplomata alle Belle Arti. Ed è una delle poche registe che il cinema italiano contava negli anni ’70: “Eravamo la Wertmuller, la Cavani, la Mangini, io… e non ricordo chi altri. Sì, ero anch’io una pioniera degli inizi degli anni ’60”.
Organizzare intorno agli anni ’70 il primo festival italiano delle donne (Kinomata) come fecero Annabella Miscuglio e Rony Daopoulos al Filmstudio fu un’impresa e una pietra miliare per tutti coloro che lo seguirono. Paola Faloja la ricordiamo in quell’occasione, assistente alla regia di Federico Fellini e Vito Pandolfi che era anche suo marito, autrice de I manichini.
Il festival di Torino, tanti anni dopo, affollatissimo di pubblico e non solo di donne, manca stranamente di registe italiane (c’è qualche sporadica presenza dall’estero) che oggi certo sono molto più numerose di allora. “Mentre da tutte le parti del mondo ci inviano centinaia di film, da noi si ha forse paura della ghettizzazione, invece di considerarla una vetrina privilegiata” ci dice la direttrice del festival Clara Rivalta, quest’anno particolarmente soddisfatta del successo della manifestazione.
Il film della Faloja ricostruisce la storia delle pioniere del nostro cinema di inizio secolo, sconosciute al grande pubblico, donne di grande personalità di cui gran parte delle pellicole sono andare perdute e adesso spetta alle nuove generazioni di storiche del cinema un lavoro di recupero.
Affianca la Faloja, nel lavoro di documentazione con la scrittura del testo (“pungente e polemico”), Enza Troianelli, una storica scomparsa giovanissima, dopo averci lasciato degli studi insostituibili sulla più famosa di queste pionere, Elvira Notari. Fondatrice di due case di produzione, la Dora Film e la Gennariello Film dal nome di suo figlio, girò centinaia di film, bistrattati in Italia, destinati per lo più al mercato degli emigranti in America, storie in cui si vedeva Napoli e dintorni non ricostruiti in studio, popolani e borghesi ritratti come avrebbe fatto poi il neorealismo.
“Dopo aver mandato fax in tutto il mondo – racconta la Faloja – abbiamo scoperto che nella cineteca di Amsterdam c’erano i film di Diana Karenne, una polacca sposata a un italiano e quindi di cittadinanza italiana. Lei come attrice ha girato in Francia e Germania ed era anche una pittrice futurista, un po’ nello stile della Lempicka. Parte del materiale prezioso ci è stato dato dai nostri più famosi studiosi di cinema delle origini, Redi e Martinelli.
Venivano da diverse parti d’Italia le altre registe: Daisy Silvan nobildonna fiorentina di cui non si sa molto, autrice di un film, Bolscevismo, andato perduto; la milanese Elettra Raggio autrice di film noir; la siciliana Giulia Cassini Rizzotto autrice di commedie frizzanti alla Lubitsch; Diana D’Amore, Bianca Virginia Camagni, Gemma Bellincioni Stagno la celebre cantante d’opera. Erano tutte attrici, così abbiamo potute farle vedere anche se i loro film sono per lo più andati perduti”.
Chiediamo all’autrice come mai tra le registe non figurino le grandi dive del muto che hanno sempre sostenuto di essere state loro a dare tutte le indicazioni di regia: “Francesca Bertini l’ho lasciata fuori perchè non ha firmato mai niente, così come la Di Sangro”.
Quanto a un ricordo di Vito Pandolfi: “E’ stato appena presentato a Udine la copia restaurata di Gli Ultimi del ’63, girato in un paesino friulano, tratto dal racconto autobiografico di padre Davide Turoldo che era figlio di contadini – ricorda Faloja – Lavoravo con lui come aiuto regista in Latina ’65 l’arco del tempo, Alberto Grifi era l’operatore e sono state sue sia le riprese che il montaggio. Poi ha continuato con le cose sue”.
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