Cresciuto a Los Angeles, studi alla Ucla University, aiuto regista di Giovanni Robbiano in Compromesso mortale, il 29enne italoamericano Pablo Dammicco esordisce sul grande schermo con N’gopp.
Una commedia ironica, ambientata a Napoli, che racconta la storia di Gennaro, giovane dj di una radio locale refrattario al matrimonio che, una volta lasciato dalla fidanzata Shandra, decide di vendicarsi.
Costato 750mila euro e girato in 4 settimane e ½ tra Napoli e Licola, è prodotto dalla Creative Film House, piccola compagnia dello stesso Dammicco che spiega: “È un film dedicato ai giovani che, dopo un prologo onirico, si chiude con un inatteso colpo di scena che catapulta gli spettatori nella realtà”.
N’gopp, distribuito dalla Eagle Pictures, è uscito il 17 maggio in 26 sale campane e debutta oggi al Barberini di Roma. Nel cast Franco Javarone (Ribelli per caso), Luigi, Biondi, Elena Russo e Rosaria Di Cicco
Qual è la storia produttiva del film?
La sceneggiatura iniziale prevedeva un’ambientazione losangelina. Poi, insieme a Roberto Russo, l’ho modificata per adattarla al contesto napoletano. Ma nel film non compaiono gli stereotipi negativi di Napoli, non c’è nessuna storia di camorra e delinquenza. Nella produzione mi ha aiutato molto mio padre, uno dei proprietari della Eagles Pictures. Insieme abbiamo deciso di correre il rischio: l’unico modo per andare avanti nel cinema.
Ti sei ispirato a qualche mago della consolle per Gennaro, il dj protagonista?
Sì. A Howard Stern, un dj molto famoso degli Usa e piuttosto stravagante. Gennaro è interpretato da Luigi Biondi, un attore giovane, come del resto quasi tutti quelli che compongono il cast. Molti li ho trovati facendo provini al Teatro Nuovo di Napoli.
Quanto ti ha influenzato l’esperienza americana?
Tanto e nel film è evidente. N’gopp ha uno stile diverso dalle pellicole italiane. Molto fumettistico e divertente, ricco di musica, un mix di cultura partenopea e di hip hop americano.
Il cinema italiano visto dagli Usa?
In Italia il cinema è poco orientato al business. Si regge in gran parte sui finanziamenti pubblici che costringono i registi a realizzare progetti dall’impronta troppo “culturale”.
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