OTAR IOSSELIANI


In concorso alla Berlinale, dove ha vinto l’Orso d’argento per la regia, eppure le competizioni lo fanno sorridere. “Facevo il giurato l’anno della Messa è finita: Nanni Moretti meritava di vincere, ma la giuria si spaccò in due. Fu una francese a decidere il destino del film: mi faceva gli occhi dolci e io l’avevo respinta. Votò contro per farmi dispetto”.
Otar Iosseliani è esattamente come i suoi film. Un aristocratico anarchico, uno snob che ama le cose semplici: il vino, la vodka, le canzoni, gli animali. Mentre lo intervistiamo, ci offre un bicchiere di whisky e poi controlla… bisogna bere tutto.
È georgiano e vive a Parigi, fa un cinema apolide e sfacciato, che ha il respiro della grande letteratura russa ma senza raccontare niente o quasi, se non le pause tra gli avvenimenti. Lunedì mattina, per esempio, parla di rifiuto del lavoro e di vagabondaggi, di cartelli col “vietato fumare”. Inizia nella provincia francese all’ombra di una fabbrica chimica e va a finire a Venezia, all’ombra del petrolchimico di Marghera ma dove si vanno a spiare le gambe nude delle suore. Italiano, oltre che francese (coproduce Mikado in collaborazione con Raicinema) esce il 1° marzo nelle nostre salein versione originale con sottotitoli.

Perché Venezia?
Per non arrivare alle Piramidi. Perché Bisanzio non esiste più. Del nostro passato ci resta poco: il Partenone l’ha bombardato Mussolini, Istanbul è diventata turca. Venezia sembra una bomboniera ma era la città dei Dogi e del Ponte dei sospiri, una città sanguinaria e violenta dove Marco Polo fu tenuto al chiuso perché non rivelasse il segreto della polvere da sparo e degli spaghetti. Ora di tutto questo non resta che il turismo: un inferno! Per vedere il vero spirito di Venezia bisogna salire sul tetto di una casa: anche una brutta musica da lontano sembra bella.

Non c’è molto spazio per la speranza, a Venezia o altrove.
Ho tenerezza per i miei personaggi anche se nessuno di loro è positivo, come nelle Anime morte di Gogol. Lunedì mattina è una commedia e come tutte le commedie parla di cose tristi e brutte. Talmente tristi che non se ne può fare un dramma. La solitudine, l’assenza di tempo per vivere, la ricerca di altri luoghi dove esista la felicità, che invece non esiste. Quei pirati di Cook, Vespucci e Colombo hanno attraversato l’oceano per rendere infelici gli abitanti di isole lontane e oggi ritrovi le stesse porcherie ovunque.

È cambiato il suo atteggiamento verso il mondo?
Da giovane vivevo in un paese terrificante e sognavo il crollo del regime bolscevico e il paradiso. Invece il mondo è ancora più schifoso. Dopo le rivoluzioni francese, russa e maoista sappiamo che il mondo è quello che è, che la natura umana è egoista e rapace.

Ci restano le sigarette.
È diventata una follia, questa di impedire agli altri di fumare. Siamo circondati di infermieri! In America è un’isteria collettiva, tutti fumano di nascosto e intanto si producono miliardi di sigarette. La sigaretta è la loro cultura, come l’oppio per i cinesi. Eppure la negano. La sigaretta nasce come protesta da liceali e resta come abitudine. Io non posso fare nulla senza avere questo oggetto tra le mani, ma fumo ben poco, per lo più la lascio ardere.

Gli uomini vivono la loro avventura anche se destinata a fallire, le donne sembrano poter solo aspettare, come Penelope.
Così vuole la tradizione. L’uomo tradisce, la donna sopporta la solitudine e porta il fardello della casa e dei figli. Il protagonista viene spinto a partire dalla noia e dall’essere ormai ridotto a semplice portatore di denaro, un padre che non può comunicare con i suoi figli. È una cosa banale ma anche complicata.

Alla fine l’uomo fa ritorno a casa.
Le memorie dei grandi viaggiatori sono piene di ritorni: Robinson Crusoe o Gulliver tornano alla civiltà per scrivere libri pieni di nostalgia. Bisogna aver passato almeno un giorno di festa.

autore
14 Febbraio 2002

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