Oscar: non più so white e a caccia di idee

I premi multietnici, il trionfo della nuova Miramax (la A 24), i grandi ritorni, la guerra europea


OSCAR NON PIU’ SO WHITE Fanno epoca le vittorie di due attori asiatici, Michelle Yeoh (malese di origini cinesi) e Ke Huy Quan (fuggito dal Vietnam, passato per il campo profughi, attore bambino in Indiana Jones e il tempio della paura e The Goonies) assieme a quella della costumista Ruth Carter che è la prima donna afroamericana a ottenere due Oscar (stavolta per Black Panther: Wakanda Forever) e della canzone Naatu Naatu, prima vittoria in quella categoria per un film indiano (ha avuto la meglio su due superstar come Rihanna e Lady Gaga). Insomma, gli Oscar non sono più so white: il rinnovamento multietnico dell’Academy, innescato con il cambiamento ai vertici e nella composizione delle giurie, sembra un fatto compiuto. Da ascrivere al vasto e complesso universo di questa rivoluzione pacifica ma inesorabile per dare spazio e voce alle minoranze anche l’Oscar andato a Sarah Polley per l’adattamento di Women Talking Il diritto di scegliere tratto dal romanzo Donne che parlano di Miriam Toews (2018), a sua volta ispirato ai fatti avvenuti in una colonia Mennonita in Bolivia nel 2011, dove donne e ragazze venivano narcotizzate e stuprate in segreto dai maschi della comunità ultra religiosa.

A 24 E’ LA NUOVA MIRAMAX A 24 non è un’autostrada ma corre come un’auto lanciata a tutta velocità. Però la società di produzione e distribuzione fondata nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges deve il suo nome proprio alla Roma-L’Aquila, dove i produttori viaggiavano quando ebbero l’idea di crearla. Il trionfo di Everything Everywhere All At Once rappresenta per Hollywood la consacrazione di un nuovo modo di fare cinema che scommette sulle idee originali più che sul mainstream. Sono sette le statuette andate al film dei Daniels, ma la società A 24 (al suo attivo 100 film e 25 Oscar totali in dieci anni di vita) – che in Italia ha sponda nella I Wonder Pictures di Andrea Romeo – ha fatto bingo anche con The Whale che porta a casa due premi abbastanza prevedibili, quello per il miglior protagonista maschile (Brendan Fraser) e quello per il trucco e le acconciature. Contraltare di questi exploit è la penalizzazione di un cinema solido ma più tradizionale con titoli pur molto importanti come Elvis, The Fabelmans, Gli spiriti dell’Isola e Tar, rimasti a bocca asciutta nonostante le trenta nomination totali. I Wonder Pictures riporta ora in sala EEAAO, prodotto dai fratelli Russo e diretto dai 35enni Daniel Kwan e Daniel Scheinert, noti collettivamente come i Daniels: il film mescola avventura, azione, fantascienza, dramma familiare, tematiche LGBT, sullo sfondo del metaverso (leggi l’articolo sulle ragioni di questo successo). 

RESURREZIONI E GRANDI RITORNI Non c’è solo la revanche di Brendan Fraser – uscito da una seria depressione e riportato sotto i riflettori da Darren Aronofsky, regista non nuovo a questo tipo di operazioni di “resurrezione” cinematografica – in questa Notte degli Oscar. Anche il premio a Michelle Yeoh, sessantenne, fantastica attrice della Tigre e il dragone, Bond girl del Domani non muore mai, protagonista di Memorie di una geisha e del film Marvel I guardiani della galassia, premia una paladina dell’empowerment femminile asiatico oltre che una donna non più giovanissima. “Questa statuetta è un faro di speranza e di possibilità. Sta a dimostrare che i sogni si sognano davvero e non lasciate che nessuno vi dica che avete superato una certa età per sognare”, ha dichiarato sul palco del Dolby Theatre. A proposito di età, ha 64 anni Jamie Lee Curtis, figlia d’arte (le leggende Tony Curtis e Janet Leigh), Leone d’oro alla carriera, che ha vinto come non protagonista sempre per EEAAO. Un sogno si avvera anche per il vietnamita Ke Huy Quan, attore bambino che da adulto non aveva più trovato una parte: “E’ una storia reale, non è cinema, è il vero sogno americano”, ha detto. Come dargli torto?

GUERRE EUROPEE E MONDIALI Ha sfondato in ben quattro categorie, Niente di nuovo sul fronte occidentale, miglior film in lingua straniera, ma anche miglior colonna sonora, scenografia e fotografia. Un po’ come accaduto con Roberto Benigni e il suo La vita è bella ma soprattutto con Parasite nel 2019 (anche lì gli Oscar per il film sudcoreano furono quattro), la nuova versione del celebre romanzo di Erich Maria Remarque, targata Netflix (l’adattamento più celebre resta quello di Lewis Milestone del 1930) ha un production value altissimo. Il cineasta tedesco Edward Berger – al lavoro a Cinecittà con il nuovo film – si concentra sull’umanità dei soldati, non solo il giovanissimo Paul Baumer che perderà del tutto l’innocenza iniziale, prima ancora di perdere la vita, ma anche tutti gli altri, descritti con pathos ed empatia nel corso delle oltre due ore di narrazione. Un kolossal pacifista che assurge a stringente attualità a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, il film – che ha le musiche impattanti di Hauschka, alias Volker Bertelmann – racconta la fase finale della Grande Guerra dal punto di vista dei tedeschi, umiliati da un armistizio rovinoso imposto dalle gerarchie militari francesi: col senno di poi sappiamo dove ci porterà tutto questo. La fotografia di James Friend ci mostra la guerra di trincea in tutto il suo assurdo cromatismo dell’orrore, volti affogati nel fango, amputazioni e sangue, effetti di baionette e granate, fino ai tank che concludono l’offensiva a pochi minuti dallo scattare della tregua. I soldati sono carne da macello nel delirio di un comandante tedesco che lancia un inutile attacco finale. 

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13 Marzo 2023

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