Quando si disquisisce di adattamenti si parla sempre di rispetto. Per l’opera originale, per l’autore, per i fan. Mai di delicatezza. Perché trascinare una storia da un medium all’altro è come traslocare. Tanti scatoloni e altrettante avvertenze: “maneggiare con cura”, “fragile”. One Piece, portato in live action, è come porcellana. Basta un dettaglio gettato con poca attenzione ed ecco la crepa. One Piece è delicato. Perché è una storia immensa, che parla di libertà attraverso l’incedere continuo di mondi sempre più assurdi, composti di grandi e piccole realtà a cui il suo autore, Eiichiro Oda, dedica da 26 anni ogni goccia della propria creatività. È una storia di pirati in un mondo di meraviglie: giganti, frutti magici, isole sospese nel cielo e mari profondi tanto da rivelare intere popolazioni. One Piece non ha limiti, gli adattamenti sì. Perciò serve attenzione. È nell’assenza di confini, specchio della visione del mondo perseguita dal suo protagonista, che questo manga ha costruito la propria fortuna diventando il più amato del Giappone.
Netflix ha accettato una sfida ardua. Forse la più importante degli ultimi anni. Potrebbe ritrovarsi tra le mani il nuovo Game of Thrones, oppure avere conferma che questi traslochi, da manga a “realtà”, richiedono ancora troppi compromessi. Il coinvolgimento dell’autore padre della stravagante avventura piratesca è stato l’elemento che ha differenziato quest’ardua sfida da molte altre, come ad esempio il fallimentare adattamento dell’anime cult Cowboy Bebop (cancellato dopo la prima stagione). One Piece è disponibile da giovedì 31 agosto e arriva sulla piattaforma dopo un importante campagna marketing che ha risposto alla preoccupazione del fandom – terrorizzato all’idea di vedere l’opera di Oda ridotta in mille pezzi da una resa scadente – con alcuni elementi di forza che, lo diciamo subito, ritroviamo anche negli episodi della prima stagione. Tra questi, l’entusiasmo del cast.
I volti sbagliati per Luffy, Zoro, Nami, ma anche per i tanti villain e comprimari, avrebbero fermato sul nascere l’operazione. Inaki Godoy non è l’esatta replica di Cappello di Paglia, ma i suoi occhi brillano dello stesso entusiasmo infantile che muove Luffy in ogni avventura. Allo stesso modo Nami e Zoro, che lungo i primi episodi imparano a interagire scambiandosi sguardi confusi dall’ottimismo del loro nuovo capitano (“Luffy crede in se stesso, mi ha contagiato”). Tutto perfetto, o quasi. Diverso è infatti il tema della resa visiva, dagli spazi ai costumi. Se la storia rispecchia con qualche aggiustamento gli eventi dei primi volumi del manga – si va dalla saga di Romance Dawn, che dà il via all’era piratesca, alla formazione della ciurma e alle prime avventure -, molto del lavoro svolto sull’impianto scenico sembra maldestro.
Dicevamo, delicatezza. Poco ci dovrebbe importare se il frutto del diavolo sia più o meno identico a quanto disegnato da Oda o animato nella serie. Più importante è la sua credibilità in live action, che è dove ai creatori (in parte traduttori) è chiesta la massima cura. Molti oggetti di scena sono identici, rispettosi del materiale d’origine, ma per questo incastrati in un effetto cosplayer che restituisce costumi fedeli ma non funzionali al nuovo medium. Il risultato pecca di una goffaggine che tradisce i buoni intenti e regala qualche risata non voluta, come nel caso dei lumacofoni (animali utilizzati in questa storia come telefoni) su cui internet si è già lautamente espresso e che, in effetti, non riesco a funzionare, assieme a tanti altri piccoli – eppure fondamentali – dettagli. Tra le ragioni, l’unione imperfetta tra effetti speciali e pratici, che può dare la sensazione di assistere ai fondali in cartapesta di una recita di medio budget.
Non è solo un problema di One Piece: quando Netflix decise di investire ingenti sforzi per portare manga di successo in live action, scoprì molto presto i limiti della missione. L’imponente budget messo in gioco per One Piece (18 milioni a episodio) non sembra fare la differenza e a tratti la computer grafica non riesce a sostenere scene che di essa dovrebbero vivere. E infatti agli scontri di Luffy, dotato di poteri che gli permettono di allungare ogni parte del proprio corpo all’inverosimile, si preferiscono i duelli all’arma bianca di Zoro, capaci di muovere la scena e lo spettatore. La CGI sarebbe dovuta essere un’alleata maggiore, ma a costi forse proibitivi.
Nell’opera di Oda viene ad esempio data un’importanza elevata alle dimensioni dei personaggi: giganti, nani, umani, personaggi mastodontici e comprimari dai corpi più inaspettati. Nel live action, complice appunto una difficoltà di trasloco da un medium all’altro, la multidimensionalità di Oda è costretta a cedere il passo a corpi più normali. Saper adattare, con cura, è importante. Ma se richiede troppe rinunce, eccessivi sacrifici, la meta si fa ancora più lontana.
Gli otto episodi della prima stagione di One Piece non si fanno però mortificare ed è il lavoro degli attori a divertire lo spettatore, invitato all’avventura. La leggerezza dell’opera d’origine – infantile nelle prime fasi ma mai sempliciotta – arriva come un soffio di vento e per quanto ancora traballante questa barchetta regge alle onde e arriva alla fine del primo, difficilissimo, traguardo. La sensazione di essere spettatori di una messa in scena di eccezionali cosplayer ci abbandona solo a tratti. E dobbiamo farci i conti, consapevoli che, forse, per ora, tanto meglio sia difficile fare. A preoccupare adesso è il futuro, perché questa storia senza limiti vive delle proprie stravaganze, distribuite tra il minuscolo dettaglio e i più importanti personaggi, e per renderle vive servirà maneggiare il corpus di Oda con ancor più cura e attenzione.
Di Alessandro Cavaggioni
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