Ondina Quadri: “il bello è calarsi a fondo dentro le storie”

Dialogo con la 29enne attrice fiesolana, reduce dal successo del film di Laura Samani


Classe ’94, fiesolana, Ondina Quadri è ‘Lince’, una delle due protagoniste di Piccolo Corpo di Laura Samani, David di Donatello 2022 per la miglior regista esordiente ed European Film Awards come ‘miglior rivelazione europea’. Figlia del montatore Jacopo Quadri e nipote dello storico critico teatrale Franco Quadri, fin da ragazzina si interessa al teatro e alle arti performative, che restano tuttora una grande passione. Ma anche il cinema arriva presto. Ha solo vent’anni nel film Amori e Metamorfosi di Yanira Yariv, e un anno dopo, nel 2015, ha già il ruolo di protagonista in Arianna di Carlo Lavagna, per cui vince il Globo d’Oro 2016 come migliore attrice. Poi arriva Il nido, di Klaudia Reynicke, Capri Revolution di Mario Martone, Notti Magiche di Paolo Virzì, Gli indocili di Ana Shametaj, Piove di Paolo Strippoli, L’isola che non c’è, la vera storia di Peter Pan, di Gianfilippo Pedote e Giuliano Carli, il mediometraggio Euridice, Euridice di Lora Mure-Ravaud e tanti corti.

Come è iniziato il tuo percorso da attrice? Qual è stata la tua formazione?

In realtà all’inizio non volevo lavorare nel cinema. Mi ero molto appassionata al teatro, quello sì, ma non perché pensassi di fare l’attrice. Ho conosciuto la scena teatrale del Festival di Sant’Arcangelo a 17-18 anni, ho iniziato a lavorarci come volontaria, il che mi permetteva di vedere tanti spettacoli e di scoprire il teatro sperimentale, di ricerca. Ma pensavo di lavorare nell’organizzazione o nelle luci, nei reparti tecnici… insomma volevo entrare in questo mondo, però non sapevo bene con quale ruolo. Il cinema è arrivato l’ultimo anno di liceo, quando ho conosciuto Barbara Melega, una Casting Director che mi ha chiesto di fare un provino per il film Arianna, di Carlo Lavagna. In realtà avevo già fatto una parte per una regista franco-israeliana, Yanira Yariv, conosciuta per caso, al supermercato: stava girando Amori e Metamorfosi, una cosa sperimentale, che andò anche a Locarno. Erano le Metamorfosi di Ovidio, io avevo un piccolo ruolo, facevo Ermafrodito. Ma lì ancora non avevo fatto un pensiero reale sulla recitazione.

Quindi è stato con Arianna che ti sei appassionata anche al cinema?

Si, con Arianna è stato diverso: mi interessava molto il tema di cui parlava il film, poi mi hanno presentato il regista e ci siamo subito riconosciuti, e mi hanno preso per fare la protagonista. Mi hanno inserita in un laboratorio di recitazione con un’Acting Coach austriaca dell’Actor studio, insomma mi hanno letteralmente buttato dentro. Quell’esperienza mi ha abbastanza colpita, da lì ho iniziato a pensare che effettivamente mi interessava approfondire anche il cinema. Poi il film è andato molto bene, anche a Venezia, io ho vinto dei premi, anche i riconoscimenti mi hanno convinto. Siamo andati a tanti festival, abbiamo viaggiato, ho conosciuto tante altre persone, anche molto lontane, che fanno questo lavoro… ma al di là di tutto, mi ero molto ‘intrigata’ proprio sulla recitazione. Comunque nel frattempo non avevo deciso di fare ‘solo’ il cinema, continuavo a essere interessata al mondo teatrale, mi sono iscritta al DAMS e ho iniziato a frequentare molti laboratori: ma di teatro, di ricerca, non di recitazione sul personaggio. Anche un po’ di danza, ho approfondito il tema del come usare il corpo in scena, in vari modi. Solo recentemente ho ricominciato a studiare con un’Acting Coach canadese, sempre cose legate al method acting… ma in realtà la mia formazione resta molto più legata al teatro e alla performance.

Per te era la prima volta nel ruolo di protagonista, che in più aveva a che fare con un tema delicato, quello dell’identità sessuale. È stato difficile?

Arianna è una persona intersex, tutto il film verteva su alcune scoperte che faceva sulla sua persona e quel che aveva subito senza saperlo, quando era una bambina. Ovviamente non era un ruolo semplice, ma non per il tema, piuttosto perché ogni scena del film gira intorno a questo personaggio, dunque anche il suo arco emotivo doveva reggere il film, avevo una grossa responsabilità. È stato molto bello, perché se da un lato io ero alle prime armi, anche il mio personaggio prendeva consapevolezza di sé nel tempo del film, in qualche modo abbiamo fatto una strada insieme. La mia impacciatezza iniziale in scena si scioglieva a mano a mano: mentre il personaggio scioglieva i suoi quesiti, anche io come attrice prendevo sempre più consapevolezza del mezzo espressivo. Una crescita parallela, molto bella.

E dei ruoli negli altri film, cosa ti porti dietro?

Il nido è una storia molto più corale, anche lì ero la protagonista, ma c’erano tanti personaggi e storie che si intrecciavano. Si rifletteva su Cora, certo, ma non era lei a portare avanti tutta la vicenda, come in Arianna, non era tutto sulle mie spalle. Poi in Capri Revolution ho avuto una parte piccola, stessa cosa in Le notti magiche, ma anche lì io sono solo nel finale del film. Insomma un altro modo di lavorare, poi se ti sei abituata a fare la protagonista, con tutte le attenzioni, un sacco di tempo per capire il personaggio, tante parole con le registe… in questi ruoli piccoli invece arrivi e fai. È proprio un altro lavoro, per quanto mi riguarda. Perché devi fare tutto da te e basta, non hai tante informazioni per approfondire, non hai molto tempo per provare, né per avere uno scambio, che è la parte che preferisco del lavoro. Certo, è un lavoro diverso, di sicuro se ti prepari e fai il tuo e lo sai fare, va bene così. Poi ho fatto tutta una serie di corti, e anche due documentari, ed è abbastanza divertente che un’attrice faccia dei documentari. Uno è quello sul lavoro di prove di uno spettacolo teatrale, anche fuori, facevamo un lavoro sul bosco, sull’esterno e un lavoro sulla poesia. Nell’altro documentario, Disco Ruin, facevo dei piccoli inserti di finzione, è la storia delle discoteche in Italia, molto bello.

Arriviamo al personaggio di Lince, in Piccolo Corpo.

Per molta parte del pubblico la cosa che resta è che Lince è un ragazzo trans nato agli inizi del ‘900. In realtà il vero focus verte sulla necessità, per una persona nata femmina in quel tipo di mondo, di mostrarsi alla società in quanto uomo, così da scampare tutta una serie di pericoli a cui invece una ragazzina sarebbe dovuta andare incontro, specie nella situazione di estrema povertà della famiglia di Lince. Anche se ognuno ci vede un po’ quel che vuole, non stiamo parlando della contemporaneità, dell’identità del genere nel 2023, ma davvero di un altro mondo.

Come sei stata coinvolta nel film?

Tramite un attore con cui avevo lavorato in un paio di spettacoli, molto amico anche di Laura Samani, è una delle persone a cui lei faceva leggere la sceneggiatura mentre la scriveva. Le suggerì subito di prendere me, ma lei voleva solo persone del territorio, non avrebbe voluto lavorare con attori dato che il film è in diversi dialetti friulani, ma non trovava una ragazza disponibile. Quindi a un certo punto si è arresa e mi ha chiamata. Devo dire che Laura è stata davvero molto brava: il processo di avvicinamento al personaggio e al film in generale, le prove, tutte le persone che mi ha presentato in Carnia… ci teneva molto a questa cosa del territorio, quindi dovevo sia imparare questa lingua, che non avevo mai sentito in vita mia, sia i modi di fare, e la montagna, io che non sono una persona di montagna. Ha voluto presentarmi qualcuno che era davvero ‘selvatico’, che sapeva come comportarsi nei boschi, che avesse sempre un modo per sopravvivere eccetera eccetera. Abbiamo fatto un lavoro molto fisico, che secondo me ci ha aiutato tantissimo, prima di fare il film. Con la scusa della lingua, abbiamo passato del tempo insieme, visitando dei posti, abbiamo provato tantissimo con gli altri personaggi del film, perché nessun altro a parte me e uno sloveno era un attore… insomma abbiamo arricchito il ‘mondo’ del film prima delle riprese, senza aspettare di farlo di fretta sul set.

Quindi anche Celeste Cescutti, l’altra protagonista, l’hai conosciuta lì, sul set?

Si, era il primo film che faceva Celeste, l’ho conosciuta durante le prove: Laura ci ha fatto conoscere in un bosco, esattamente dove ci conosciamo nella storia, nel film. Mi ha portato lì e mi ha detto ‘tu cammina’, l’aiuto regista ha portato Celeste dall’altra parte del bosco e le ha detto ‘cammina’ ed a un certo punto ci siamo incontrate. È stato bellissimo, un modo di avvicinarci al film e anche di conoscerci.

Il bosco ritorna sempre, mi pare, nella tua vita di attrice…

Si, moltissimo: il bosco, l’acqua… queste cose un po’ selvatiche. Una gran fortuna, anche perché girare in montagna o in campagna è molto bello, piuttosto che girare in città… se poi ti ritrovi a girare in questi posti bellissimi, è davvero un regalo.

La relazione, l’entrare in contatto profondo, intimo con la storia e le persone, prima del film, sembra un tuo punto fermo.

Sì, assolutamente. Io tra l’altro ho accettato di fare il film senza nemmeno leggere la sceneggiatura. È stato molto bello, Laura mi ha parlato del film, le ho detto ‘incontriamoci’ e ci siamo incontrate a Orvieto, abbiamo mangiato insieme, mi ha raccontato di nuovo la storia, io le ho detto di sì. Poi solo tempo dopo mi ha fatto leggere la sceneggiatura per la prima volta, insieme, su una montagna, davanti ad un fuoco, ma era stata così brava a raccontarmela che era come se l’avessi già letta. Anche come rapporto con il film, questo ‘metodo’ mi ha dato una carica emotiva forte, tutte quelle cose ce le hai già dentro quando devi andare in scena, piuttosto che iniziare le riprese e poi calarti mano mano nel personaggio: abbiamo fatto un percorso inverso, ci siamo calate dentro la storia e poi siamo arrivate al film, così abbiamo portato dentro anche altre cose, che magari non erano scritte. Devo dire che questa è la cosa che preferisco, il cercare di capire perché una persona sta facendo un film, cosa effettivamente la spinge, e da li trovare un tramite che mi porta ad avvicinarmi al personaggio e alla storia.

So che vorresti parlarmi dei tuoi spettacoli in teatro, ma restiamo al cinema, dopo Piccolo corpo hai partecipato a un altro film, poi a un mediometraggio…

Sì, Euridice, Euridice (la foto di scena che apre l’intervista) è un medio metraggio di Lora Mure-Ravaud, prodotto dalla Svizzera ma girato a Roma, in qualche modo ispirato al mito di Orfeo e Euridice: io faccio Orfeo ma ho un ruolo femminile, mi chiamo Ondina. È stato premiato al Festival di Locarno con il Pardino d’Oro. Poi c’è l’ultimo film, girato a maggio dell’anno scorso, si chiama L’isola che non c’è, la vera storia di Peter Pan, di Gianfilippo Pedote e Giuliano Carli. Io io faccio Peter Pan, ma non quello del libro, un Peter Pan che era un soldato dell’esercito austro-ungarico nella prima guerra mondiale, morto sul Monte Grappa negli ultimi giorni del conflitto. È un film sulla follia della guerra, sul fatto che questi ragazzi venivano mandati a morire quando erano poco più che adolescenti. Lo sappiamo, i personaggi maschili il più delle volte sono più interessanti di quelli femminili, è un problema dell’industria cinematografica, di quello che si è scelto di raccontare, di chi ha scritto i libri, le sceneggiature, di chi detiene il potere… ma noi intanto possiamo anche interpretare i ruoli maschili, mentre aspettiamo dei ruoli femminili che ci interessino. Ah, c’è un’altra cosa che voglio dire, un po’ una curiosità: io ho fatto quasi sempre opere prime: da Arianna a Il nido, Piccolo Corpo, Euridice Euridice, L’isola che non c’è, tutti registi bravissimi, tutti esordienti.

Qual è il prossimo ruolo che ti piacerebbe ti offrissero al cinema?

Forse mi piacerebbe un personaggio femminile, in effetti ho indagato abbastanza questi personaggi maschili. Ma in realtà più di tutto mi interessa fare bei film, poi quel che faccio, faccio.

Giovanna Pasi
18 Febbraio 2023

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