Last Words – in uscita il 15 giugno con la Cineteca di Bologna – è stato selezionato per il concorso al 73º Festival di Cannes ed è una produzione di Stemal Entertainment in collaborazione con Rai Cinema. È una coproduzione italo-francese con Paprika Films, Les Films D’Ici e Les Films Du Rat. Gran parte del film è stato girato in Italia, tra il Parco Archeologico di Paestum e la Bologna sotterranea.
Il film immagina in modo profetico la fine dell’umanità nel 2086, dopo le grandi alluvioni, quando il nostro pianeta non esiste più e l’ultimo sopravvissuto scopre il cinema, che diventa il custode della memoria umana.
Nel mondo del 2086, l’Europa è un deserto e la natura è scomparsa. Gli ultimi sopravvissuti si nutrono di lattine di cibo in polvere.
La cultura è quasi del tutto estinta, tranne che per alcuni frammenti di cinema tra le rovine di Bologna e gli antichi templi ad Atene. Non esiste più la socialità né la memoria di un semplice gesto di affetto come una stretta di mano.
Ma nonostante tutto, il film sostiene che non tutto è perduto. Grazie alla meravigliosa risorsa dell’immaginazione umana, Last Words affronta il potere distruttivo delle catastrofi ecologiche senza perdere la speranza, la tenerezza e la gioia di raccontare storie che sono urgenti.
Il protagonista del film è un sopravvissuto sulla Terra nel 2086, un giovane africano interpretato da Kalipha Touray, un rifugiato gambiano che, a soli sedici anni, ha già sperimentato la fine del mondo nella vita reale. Insieme al leggendario Nick Nolte, nel ruolo di un regista di un’altra epoca, il giovane scoprirà il cinema e, di conseguenza, il significato della vita: il piacere di stare insieme dopo un lungo periodo di isolamento, l’amore per la cultura dopo anni di barbarie e la bellezza dopo tanto orrore. Soprattutto, i protagonisti riscoprono l’importanza di preservare la memoria viva, perché quando il mondo sta per finire, tutto diventa cruciale.
Nel cast anche Charlotte Rampling e Alba Rohrwacher.
“E’ difficile spiegare come sia nato il film – dice Nossiter – è una storia d’amore. Ho letto un romanzo breve di Santiago Amigorena, che parlava della capacità della letteratura di rendere dignità all’uomo anche in condizioni barbariche. E’ così anche per il cinema, che muore come atto politico collettivo di guardare una pellicola insieme guardando verso lo schermo. Questo mi ha reso triste. Ho notato che quello a cui avevo dedicato la vita stava perdendo il posto centrale nel mondo. Il cinema era democratico, tutti al di là della classe di appartenenza ci andavano, e occupava uno spazio sociale importante. Volevo raccontare il cinema secondo questo punto di vista: il cinema è un atto al contempo religioso e laico, che ci dà sollievo come uno psichiatra o un prete. E tutto questo davanti a un mondo che crolla. Il riscaldamento globale non è un’idea lontana. Siamo in piena fine del mondo, e ci siamo da 15 anni. Qualcosa bisogna fare”.
E il cinema, naturalmente, è un mezzo fondamentale: “Fare cinema – dice ancora Nossiter – è stare in contatto. Io avevo un bisogno quasi animale di stare con gli amici e con persone coraggiose. Khalifa è un ragazzo coraggioso che ha affrontato l’impossibile per essere in Italia, non tutti lo hanno accolto nello stesso modo ed è rimasto entusiasta della vita. Quando ho visto lui così coraggioso ho pensato che il film andasse fatto, così come celebro il coraggio di chi ha prodotto il film e contribuito alla sua realizzazione. Che grande regalo poter giocare nel parco di Paestum!”
Interviene Touray: “Non è stato facile, era il mio primo film e ho lavorato accanto a personaggi di enorme calibro. Come un primo giorno di scuola, non capivo esattamente cosa stesse succedendo sul set. Ero confuso, mi guardavo intorno e cercavo di capire cosa facevano gli altri”.
Risponde Nossiter: “E’ sempre rischioso mescolare il lavoro di attori professionisti con quello di chi non ha esperienza. Io ho fatto molti casting ma non trovavo la sostanza. Sembrava tutto fin troppo cinico e disilluso. Così ho capito che dovevo cercare più nei centri e nei campi di rifugiati, tra gente che ha fatto un vero percorso di emigrazione. Kalipha ha iniziato a quindici anni, e ci raccontava tutto ridendo”.
Commenta Rampling: “Era straordinario. Noi attori cerchiamo di rendere la realtà in maniera più efficace possibile, ma lui ‘era’ la realtà. Kalipha ha vissuto realmente le cose che noi raccontiamo. La storia ce l’ha dentro”:
Prosegue poi, sul film: “Mi ha attratto discutere con Nossiter, mio caro amico, del progetto, che ha avuto molte forme. Si trattava di un gran lavoro di trasposizione a partire dal concetto di Amigorena, non era certo facile realizzarne. Ci incontravamo tra l’Italia e Parigi. Considerata la profondità di quello che volevamo realizzare il lavoro da fare era parecchio. Non volevamo un film troppo verboso, le parole dovevano venire dopo le immagini. Il talento visivo di Nossiter ha permesso la traduzione delle parole su schermo, ha anche completamente inventato il mio personaggio. Per un certo periodo abbiamo parlato della possibilità che io avessi il ruolo di Nick Nolte, ma ho rifiutato, era troppo impegnativo. C’è una profonda comprensione nel film dello stato del mondo e di quanto stiamo maltrattando il pianeta, mentre potremmo fare cose bellissime per prendercene cura. Ero così coinvolta nella storia fin dall’inizio che il personaggio è emerso da sé. Parla una lingua strana, non sappiamo bene chi sia, nemmeno sapevamo cosa avrebbe fatto e cosa avrebbe detto. Ma lei sorride tutto il tempo, perché anche io sorridevo con la mia anima verso le tematiche del film. Nella pellicola c’è il lato oscuro del mondo, ma c’è anche qualcosa che stiamo facendo per combatterlo: amore, empatia, apertura verso gli altri”.
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