Per rendere omaggio al grande scrittore e regista recentemente scomparso, pubblichiamo la prefazione che Luciano De Crescenzo ha scritto per Non dire viola, libro dedicato al rapporto tra superstizione e grande schermo edito da Luce Cinecittà
Intorno alla fine degli anni Ottanta, se non ricordo male, mi ritrovai ad Ischia con un gruppo di amici. Era pieno agosto e non si trovava una stanza d’albergo neanche a pagarla oro, ma noi non c’eravamo persi d’animo e avevamo deciso di raggiungere l’isola in barca. Trascorremmo una giornata bellissima, ma poi, arrivata l’ora di cena, ci ritrovammo seduti tutti insieme intorno a un tavolo a ragionare su dove avremmo trascorso la notte. La discussione era molto animata e ognuno di noi faceva sentire la propria voce alzando i toni, tant’è che a un certo punto il padrone del ristorante si avvicinò al nostro tavolo. “Scusate, non vorrei sembrare invadente” – esordì un po’ dubitante, “ma in effetti un posto dove andare a dormire ci sarebbe”. Ovviamente tutti gli prestammo subito attenzione. “Se volete vi faccio vedere dove si trova, ho pure le chiavi” – proseguì lui con tono incerto. “C’è un solo problema, la casa è infestata dagli spiriti, quindi io non ci voglio assolutamente entrare”. Bastò che l’uomo pronunciasse la parola “spiriti” che subito i miei amici risposero di non essere interessati. Io, invece, decisi di trascorrere la notte lì, anche perché mi sembrava la soluzione più pratica. Il ristoratore mi accompagnò fin davanti alla casa, ma una volta arrivati all’altezza del cancello mi lasciò le chiavi e scappò subito via. Così, una volta varcata la soglia della “villa stregata”, presi fiato e urlai: “Signori fantasmi, se non vi dispiace, io stanotte dormirei qui. Mi raccomando, cercate di non fare brutta figura!”. Ora, detto tra noi, gli spiriti più che una brutta figura ne fecero una pessima. Di fantasmi, infatti, nemmeno l’ombra, anzi probabilmente è stata una delle notti in cui ho dormito più serenamente, a dimostrazione di una convinzione che mi accompagna da sempre, e cioè che essere superstiziosi porta male, anzi, dirò di più, credo porti proprio jella.
A questo punto mi sembra necessario fare una distinzione tra chi è superstizioso e chi non lo è. I primi, in quanto passionali, credono nel destino e ai segnali premonitori, mentre i secondi, più razionali, nel caso. Mi spiego meglio. Ananke, la dea del destino, era per i Greci la divinità più potente di tutto l’universo. Lo stesso padre degli Dei, Zeus, non poteva opporsi ai suoi voleri. Se, ad esempio, il fato aveva stabilito che Edipo uccidesse il padre e si innamorasse della madre, non c’erano Santi, anzi, non c’erano Dei o mortali che potessero modificare il corso degli eventi. Forse solo un uomo dell’epoca decise di affrontare il suo destino, Ulisse, che grazie all’astuzia e alla ragione riuscì ad avere la meglio sulla paura e la superstizione. Ebbene, nonostante la mia passione per la mitologia greca, io sono nato ingegnere e mi sento più vicino ad Ulisse, dunque non posso essere superstizioso perché credo nelle statistiche. Ad esempio, tra la macchina e l’aereo ho sempre preferito viaggiare con il secondo, perché statisticamente gli incidenti stradali superano quelli aerei. Anzi, vi dirò di più, quando vado in aeroporto, appena scendo dal taxi non posso fare a meno di pensare: “Meno male, il peggio è passato!”. Chi invece lascia che la passione abbia la meglio sulla ragione crede in Ananke, ai segnali premonitori, agli astri, e tende ad essere superstizioso. Anche Cicerone era un razionale come me, ed era convinto che chi trascorreva le proprie giornate rivolgendo preghiere agli Dei, magari per salvaguardare la salute sua e dei suoi cari, era affetto da una devozione che sfiorava il patologico. Insomma, da che mondo è mondo, è possibile ritrovare la superstizione in tutte le culture, anche se, in alcuni casi, numeri, simboli, colori e via dicendo, assumono significati diversi. Prendiamo la cosiddetta triscaidecafobia, la paura del numero tredici. Nelle culture anglosassoni il 13 è un numero terribile, quindi è meglio stargli alla larga. In Paesi come il Tibet o la Cina, invece, questo numero è considerato un simbolo di fortuna e prosperità. Lo stesso dicasi con il 17: secondo alcune credenze è portatore di eventi funesti. I pitagorici addirittura lo detestavano, perché posto tra due numeri perfetti, il sedici e il diciotto.
Detto questo, lo so che la superstizione altro non è che un insieme di credenze e pratiche rituali, ciononostante nessun essere umano ne è immune, anzi, ci sono ambiti in cui certi gesti scaramantici sono inevitabili. Prendiamo il teatro. Come tutti gli addetti ai lavori sanno, è preferibile che un attore non si presenti mai vestito di colore viola. Questa credenza non è del tutto immotivata, ma affonda le sue radici nel Medioevo. Durante la Quaresima, infatti, era assolutamente vietato portare in scena qualsiasi tipo di spettacolo, e per ben quaranta giorni agli attori era impedito di lavorare, e di conseguenza di guadagnare il necessario per sostentarsi. Una vera sventura! Pertanto, poiché il viola è il colore dei paramenti liturgici usati durante la Quaresima, era considerato un colore maledetto, proprio come la fame che gli attori erano costretti a patire. In Francia, invece, il colore “sfortunato” è il verde. Sembra infatti che Molière lo abbia indossato durante la sua ultima esibizione a teatro; vestiva i panni del Malato immaginario… ebbene poche ore dopo la fine dello spettacolo morì. Un altro esempio di superstizione è legato al copione. Se inavvertitamente un attore lo lascia cadere durante le prove, deve subito prenderlo e batterlo a terra per tre volte consecutive, perché pare che la sua caduta possa rappresentare il fallimento dello spettacolo. Nel mondo teatrale russo, invece, chi lo ha fatto cadere deve raccoglierlo e sedercisi sopra. Nel tempo queste superstizioni si sono estese anche al cinema. Il mio adorato Federico Fellini non ne era immune. Forse è anche per questo che nella prima metà degli anni Novanta, quando ho curato la regia del film tratto dal mio libro Croce e delizia (1995), ho deciso di raccontarle. Ora non starò qui a dilungarmi sulla trama, ma Alberto Sanna, il personaggio principale, è un attore che ha una particolare superstizione, ovvero prima dell’inizio delle riprese deve dare una pacca sul sedere della sua sarta. È un gesto benaugurante, un modo per scacciare via la negatività. E, se proprio devo essere sincero, e non avrei motivo per non esserlo, questa trovata non fu una mia invenzione. Proprio nel periodo in cui stavo lavorando al libro, infatti, mi era capitato di conoscere un attore che aveva questa particolare abitudine. E sebbene oggi possa sembrare un gesto poco rispettoso, in realtà l’intenzione che lo muoveva non lo era affatto, anzi, la sarta in questione ne era onorata, perché si sentiva parte fondamentale del processo creativo necessario alla realizzazione e al successo delle riprese.
Dunque, se anche voi siete affetti da questa strana mania chiamata superstizione, leggete questo libro. E se invece come me ne siete immuni, leggetelo lo stesso. Che poi, come ho scritto, anche la superstizione è relativa. Una volta ho letto che il colore viola porta bene quando si cerca lavoro, ma se il lavoro lo cerco nel cinema, a questo punto mi chiedo: come mi devo vestire?
(Luciano De Crescenzo, prefazione del libro Non Dire Viola)
Ruocco è scrittore, giornalista, attore, documentarista, organizzatore di eventi. Dal 2012 fa parte dello staff organizzativo del Fantafestival e dal 2020 è parte del comitato editoriale di Heroes International Film Festival
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L'autore Gianfranco Tomei insegna Psicologia Generale, Sociale e della Comunicazione presso la Sapienza di Roma. E' esperto di linguaggi audiovisivi e multimedialità e autore di romanzi, cortometraggi e documentari
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