Due talenti al giro di boa, da emergenti a consacrati: Ryan Gosling, dopo aver collezionato un buon numero di candidature ai principali premi americani, Oscar compreso, è ormai insieme a Michael Fassbender, l’attore del momento (ultime apparizioni: Le idi di marzo di Clooney in concorso a Venezia e Crazy, Stupid Love in questi giorni nelle sale). Quanto a Nicolas Winding Refn, adorato da anni dai cinefili, è entrato nella serie A grazie al premio per la regia vinto a Cannes proprio con Drive, il suo primo film americano, interpretato da un Gosling in stato di grazia e dalla bravissima Carey Mulligan, quasi l’incarnazione dell’innocenza, affiancati tra gli altri da Albert Brooks. Un noir metropolitano, romantico e ultraviolento, attraversato da un personaggio che parla poco e nulla e ha una surreale fissità nello sguardo, ma che poi esplode in gesti sanguinari. Uscita italiana in grande stile per una felice intuizione di Fulvio e Federica Lucisano che al festival di Cannes l’avevano adocchiato prima del premio, accaparrandoselo con una stretta di mano. Danese come Lars Von Trier, ma allevato a New York da genitori alternativi, Nicolas, classe 1970, vive a Copenhagen e non pensa di doversi necessariamente trasferire a Hollywood. Ma questo si vedrà. Intanto il suo prossimo progetto, ancora con Gosling insieme a Kristin Scott-Thomas sarà girato in Thailandia e si intitolerà Only God Forgives. Dio perdona…
L’idea di “Drive” è venuta in realtà a Ryan Gosling, che voleva realizzare un film dal romanzo pulp di James Sallis. Però gli Usa sembravano l’approdo naturale per il suo cinema con quelle atmosfere noir, la padronanza del genere poliziesco, un gusto postmoderno per la citazione, l’uso concitato della violenza.
Credo che il cinema dia davvero il massimo quando la mitologia americana sposa la sensibilità poetica europea, come in Jean-Pierre Melville oppure in Murnau per tornare agli anni ’20. Quanto alla violenza, nessuno meglio degli italiani sa usarla al cinema. Ma devo dire che la mia prima fonte di ispirazione sono le favole dei Fratelli Grimm che leggevo a mia figlia prima di addormentarla. Sono storie di purezza cristallina che diventano via via oscure ma senza mai perdere il senso morale, perché l’innocente finisce per prevalere.
Ci spiega meglio i riferimenti al cinema italiano come esempio di poetica della violenza.
Certo, è vero, il classico cinema d’azione è quello di Hollywood, ma ci sono autori italiani, come Dario Argento o Sergio Leone, che hanno reso la violenza poetica e surreale. Esistono film italiani meravigliosi, e non parlo dei grandi maestri, Fellini, Visconti o Rossellini. Certe cose le ho rubate a Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, due autori molto sottovalutati. Per esempio l’uso della canzone Oh my love di Ritz Ortolani cantata da Katyna Ranieri. Io cerco soprattutto di non ripetermi, mentre do voce alle mie ossessioni, e quello che mi nutre è l’immaginario degli anni ’80, gli anni in cui sono cresciuto.
Perché la violenza la affascina tanto?
Non sono un violento, se mi picchiassero potrei morire. Ma sono un feticista e nei film metto quello che mi piacerebbe vedere, quello che mi eccita anche sessualmente. Sono cresciuto a New York e mia madre e il suo compagno erano convinti che il cinema americano fosse fascista, mentre i film europei, non violenti, erano arte. Io volevo ribellarmi a loro, ma non sapevo come fare: non mi potevo drogare perché sulle droghe ne sapevano molto più di me, anche il rock era off limits, mia madre aveva persino fatto dei ritratti fotografici a Jimi Hendrix. Insomma, mi restava solo il cinema per mandarli a quel paese.
E oggi sua madre cosa dice di film come la trilogia di “Pusher” o di “Bronson”?
È molto orgogliosa di me e vede solo quello che vuole vedere. Di Drive ha detto “è una bellissima storia d’amore”.
Nel cinema danese la violenza è molto presente, sebbene in forme più psicologiche, come crudeltà mentale, tortura psicologica.
Noi scandinavi siamo un po’ repressi, fa molto freddo, si sta a lungo in casa, si tende a non comunicare le emozioni, a non mostrare la rabbia o l’invidia, e si sviluppano spesso comportamenti aggressivo-passivi. Io per fortuna sono cresciuto guardando il mondo dall’Empire State Building, con una prospettiva diversa e con l’idea di poter fare quello che voglio. Infatti oggi a Copenhagen faccio un po’ fatica.
Come si è sentito dopo il premio a Cannes, che tra l’altro è arrivato da una giuria guidata proprio dall’ex “Taxi driver” De Niro, un personaggio di culto che ha molte similitudini col suo?
Certo, fa un bell’effetto sentire Bob De Niro che ti dice: questo è il miglior film noir che io abbia mai visto, ma poi torni a casa e devi andare a fare la spesa al supermercato e cambiare i pannolini al più piccolo. Tutto si ridimensiona. Ora però, se mi chiedono garanzie sul mio talento, posso mostrargli il premio.
“Drive” parla di un amore assoluto e irrealizzato, che porta fino al sacrificio di sé…
Parla dell’illusione dell’amore, dell’idea dell’amore senza le complicazioni che vengono dopo. È un’emozione molto violenta che aveva bisogno di un contesto di iperrealismo per esprimersi. Il protagonista si muove tra due estremi, l’aspirazione all’amore e la violenza cieca.
Tornerà a Hollywood?
Ci sono stato nove mesi, per girare Drive. E non ho sentito mai dire di un film che fosse bello o brutto, ma solo se faceva soldi, o non li faceva, e in tal caso era un po’ troppo europeo… No, non credo che vorrei viverci.
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