Se è vero quell’adagio un po’ cinico per cui chi si occupa di critica d’arte (letteraria, musicale, cinematografica) lo fa come surrogato alla scrittura, alla composizione o alla regia, e quindi tende a stroncare quanto più può per invidia, allora quello della schiatta dei Rondolino si profila come un caso interessante. Il figlio del celebre critico cinematografico esordisce alla regia, e così fa forse la felicità del padre, che vede in lui ciò che (come per molti padri, in ogni professione) lui stesso non è potuto essere. Ma questa è solo un’ipotesi, anche un po’ approssimativa.
Parlando con Nicola Rondolino invece (regista di Tre punto sei, in questi giorni in fase di montaggio) ne viene fuori un’altra, più semplice e più verosimile: “Mio padre mi ha insegnato il cinema fin da piccolo, portandomi a vedere film per bambini e film seri, abituandomi a guardare di tutto, rischiando di annoiarmi fino alla repulsione, oppure, come è accaduto, intrigandomi a tal punto da rendere il cinema parte integrante della mia vita”. Insomma, la naturale osmosi culturale tra generazioni contigue.
Nicola, di cosa parla il film che hai scelto per esordire?
E’ la storia dell’amicizia di Salvo, Nero e Nanà. Sullo sfondo San Salvario, il quartiere multietnico di Torino. Il background della storia è Nanà, una tossicodipendente amata da entrambi, che ha fatto la sua scelta: Salvo, un poliziotto corrotto. Dante era sparito nel nulla. Oggi Dante ritorna nel quartiere, nella malavita e le sue regole. Salvo ama Nanà come sempre, ma per Nanà ormai non è che un amico; un amico che da sempre fa di tutto perché lei smetta di bucarsi. Il suo vero amore è Dante e come un rigurgito di passato mai sopito si è riaperto il solito vecchio gioco a tre. Soltanto che oggi rimorsi e rancori giocano su un campo minato: il quartiere è cambiato troppo in fretta, l’equilibrio tra italiani, arabi, africani e polizia è sempre più instabile, le regole non valgono più e ogni passo può essere quello falso.
Come mai la scelta del noir, un genere che, in quanto tale, in Italia non è molto frequentato?
Quando io e Luca Aimeri, il co-sceneggiatore del film, abbiamo scritto il primo soggetto (più o meno tre anni fa), il noir è venuto fuori quasi automaticamente. A entrambi piace il cinema americano, che è cinema di genere per eccellenza, e amiamo molto anche la letteratura nera. Volevamo fare un film che avessimo avuto voglia di andare a vedere. In Italia è come se le regole del mercato e il gusto dominante abbiano finito per limitare i prodotti alla commedia, perché fa ridere, e al film “d’autore”, perché fa pensare. Però sempre più gente, forse, sente il bisogno di raccontare e di vedere una storia qualunque, ambientata tra cowboys, mostri, poliziotti o cavalieri.
Anche la scelta del famigerato quartiere di Torino è coraggiosa…
L’ambientazione a San Salvario è stata una scelta naturale in quanto sia io sia Luca Aimeri abitiamo nel quartiere. Abbiamo preso spunto da luoghi, personaggi e situazioni che vedevamo ogni giorno, per inventare una storia possibile, scavando in un’ipotetica realtà nascosta nei retri dei negozi, sotterranea e parallela.
Quanto sono durate le riprese?
Le riprese sono iniziate il 16 luglio e sono durate per sei settimane e tre giorni. E ovviamente gli esterni e parte degli interni sono stati girati a San Salvario.
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