Napoli È Pino Daniele. A ricordarcelo bastano in lontananza le note inconfondibili della sua chitarra, che sta accordando per l’ennesimo soundcheck: un suono che come nessun altro ha il sapore della voce naturale e viva della città, mentre un drone ci accompagna dolcemente nel cuore stesso del golfo partenopeo. Sono i primissimi fotogrammi di Nero a metà, il documentario di Marco Spagnoli e Stefano Senardi in sala da sabato 4 a lunedì 6 gennaio, a dieci anni esatti dalla precoce scomparsa di uno dei musicisti più amati e innovatori che l’Italia (e non solo) abbia mai conosciuto.
Il volume si alza e la scena si sposta su un palco: A me me piace ‘o blues’, inizia a cantare un giovanissimo Pino Daniele (Napoli 19/3/1955 – Roma 4/1/2015) negli studi della Radiotelevisione svizzera. Siamo all’inizio degli anni ’80, e il blues deve piacergli davvero parecchio, dato che un paio di versi dopo si esibisce in uno dei suoi vocalismi che fanno invidia alle più leggendarie voci nere del genere: sorridente e appassionato, improvvisando come se non ci fosse un domani, in magica e totale armonia con gli altrettanto sbarbati e lanciatissimi Joe Amoruso, Tullio De Piscopo, Tony Esposito e Rino Zurzolo. Un inizio da favola, che continua alla grande per 94’ lasciando letteralmente incantato il pubblico accorso all’anteprima stampa nella capitale.
“Dopo il documentario su Franco Battiato, La voce del padrone (2022), nel decennale della scomparsa di Pino Daniele abbiamo deciso di girare questo ‘Pino Begins’, un po’ come fosse un Batman Begins”, racconta Marco Spagnoli introducendo il film alla sala. “Lo abbiamo voluto raccontare come un ventenne, fin dalla primissima apparizione televisiva alla Rai di Napoli… E con quella, insieme a Stefano Senardi che di Pino era amico, abbiamo raccolto anche moltissime altre ‘chicche’ di repertorio, per scoprire tante cose di lui, e soprattutto per scoprire come è nato questo grandissimo, indimenticabile, straordinario artista, in un ritratto molto affettuoso”.
Il regista non mente, di ‘chicche’ che immortalano passo passo la vita e la musica di Pino Daniele il documentario è un’autentica miniera: quei primi minuti alla grande, infatti, sono solo l’inizio di una lunga serie di filmati di repertorio, preziosi tesori riemersi dagli archivi messi a disposizione degli autori. Due su tutti: l’apertura del mitico concerto di Bob Marley a San Siro nel 1980 e quello dell’anno dopo in piazza Plebiscito, che fece oltre 200mila spettatori. Il tutto grazie a Teche Rai, Archivio Luce, RSI, AAMOD, RTI e molti altri.
“Il nostro obiettivo era rispondere a due quesiti”, continua Spagnoli: “il primo era come ha fatto a diventare Pino Daniele, una domanda alla quale il film dà tante risposte. E il secondo era capire cosa resta dopo la sua scomparsa. Perché è vero che quando un artista scompare ci lascia, ma non è così per la sua musica, la sua arte. Quindi è un viaggio sentimentale, un viaggio a Napoli, ma anche un racconto identitario: è soprattutto una riflessione su quello che questo grandissimo artista ci ha dato, ci ha detto, ci ha raccontato, e quello che potrà ancora fare. Perché come si vede dagli straordinari ragazzi che suonano la sua musica, la sua è un’eredità tangibile, vivente, vivace, presente, anche in quella Napoli piena di murales di Pino Daniele, di Massimo Troisi e di Maradona, che è una realtà esistente e pulsante”.
“Ho voluto parlare di Pino (Daniele, ndr) per una mia vicinanza a lui non solo sentimentale, ma anche culturale”, racconta Stefano Senardi a CinecittàNews. Oltre ad essere un caro amico di Pino Daniele, il co-autore del documentario, lo ricordiamo, è anche il discografico con la D maiuscola noto per aver promosso e lavorato con i più grandi cantautori italiani – a partire da Fabrizio De André – e numerosi big della musica a livello internazionale, ma allo stesso tempo per non essersi mai tirato indietro nel contribuire generosamente a numerosi progetti umanitari. Presidente di Polygram Italia dal 1992 al 1997, è attualmente presidente del Club Tenco.
“Una vicinanza che inizia esattamente dal suo secondo album, Pino Daniele, che prelude a Nero a Metà, quello che dà il nome al nostro film e che lo ha consacrato nell’olimpo dei grandi”, continua Senardi. “Un olimpo dove poi è rimasto sempre, pur se in un rapporto conflittuale con i musicisti, con la sua città, col suo passato… e anche con il successo, che in parte amava ma dall’altra non gli piaceva per nulla, non lo faceva sentire a suo agio. Un conflitto che viveva rispetto a Napoli, perché era una città che soffriva senza reagire, e rispetto al successo stesso, che l’ha premiato per la sua ‘ricerca totale’: perché oltre a essere uno dei più grandi appassionati di musica che ho mai conosciuto in vita mia, era anche estremamente competente, un grande esperto. Sempre alla ricerca di qualcosa di più”.
Come ha conosciuto Pino Daniele? Al di là dell’amicizia, cosa hanno rappresentato per lei la sua figura all’interno del panorama musicale e questa ricerca incessante, che aveva molto in comune con il suo stesso approccio al mestiere di discografico?
“Iniziamo da come ho conosciuto Pino”, continua Senardi. “Un giorno mi trovavo a Roma insieme a George Benson e lui mi fece chiamare dal discografico che lo accompagnava in quegli anni, per chiedermi se potevo presentarglielo… alla fine abbiamo organizzato una cena, dove ero io ad essere agitatissimo, perché Pino Daniele era un mio idolo: Pino è quello che mi ha aiutato ad essere meno diffidente rispetto alla musica italiana, perché io per anni ho ascoltato solo musica internazionale. Poi alla fine degli anni ‘70, quando è uscito quel suo famoso secondo disco, sono letteralmente impazzito: da lì ho pensato che ci fosse qualcosa di bello da scoprire nei cantautori italiani, prima che arrivasse lui io ero un esterofilo, per cui gli devo davvero molto. Mi ha fatto conoscere molta musica meravigliosa oltre alla sua, era un perfezionista che cercava sempre di migliorarsi, mai contento del punto in cui era arrivato. E mi hanno detto che è sempre stato così, da quando aveva nove anni: aveva questa chitarra in mano che non mollava mai, ci andava anche a dormire, come fosse una specie di scudo. Mentre nella copertina di Nero a Metà sembra imbracciarla quasi come un fucile”.
Così come i materiali di repertorio, un plauso va riservato alla selezione delle location napoletane del documentario, scelte ad arte tra angoli di strada, bar, negozi o studi di registrazione, gioielli del barocco ed archeologia industriale, che incorniciano magistralmente le numerose interviste: voci di artisti, attori, scrittori, giornalisti, amici e semplici persone accomunate dalla fortuna di aver condiviso con Pino Daniele un piccolo o grande pezzo di strada, di vita. Tra le tante testimonianze, quelle di Viola Ardone, Enzo Avitabile, Carmine Aymone, Miriam Candurro, Gino Castaldo, Tony Cercola, Tullio De Piscopo, Gigi De Rienzo, Teresa De Sio, Mauro Di Domenico, Cristina Donadio, Tony Esposito, Enzo Gragnaniello, Carlo Massarini, Pietra Montecorvino, James Senese, Jenny Sorrenti, Fausta Vetere, Ernesto Vitolo e tanti altri, alle quali fanno da sfondo il Caffè Gambrinus, il Murales di Mario Castì che ritrae James Senese nel quartiere Miano, il Grand Hotel Santa Lucia, il Cimitero delle Fontanelle, il Teatro di Corte del Palazzo Reale, fino alla magnifica Sagrestia del Vasari della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi.
Come nel docufilm su Franco Battiato, per lei questo è un viaggio, fisico e spirituale, in cui oltre al ruolo di coautore e voce narrante interpreta quello della guida che presenta allo spettatore, come fossero suoi intimi amici, i tanti testimoni della vita di Pino Daniele: un’opera, la vostra, che è un atto d’amore verso di lui, dove nessuno tra gli intervistati dice mai qualcosa di retorico, ma al contrario sempre autentico e necessario, come se a parlare fosse direttamente il loro cuore. E dove la seconda protagonista è Napoli.
“Mi sembrava giusto ricordare così la sua figura, ed è stato emozionante e anche divertente coinvolgere molti artisti, perché con loro mi sento a mio agio, e sento che loro lo sono con me”, prosegue Senardi: “un’empatia, la mia, di cui a inizio carriera mi ‘accusavano’ tutti i miei capi. Per me, al contrario, è sempre stata la cosa più bella: stavolta, ad esempio, mentre chiacchieravo con Enzo Avitabile, quasi non ci accorgevamo di essere ripresi, e molti altri musicisti, contenti di esserci, hanno confermato questa sensazione di estrema intimità e confidenza. Del resto, avevamo due obiettivi: non spettacolarizzare l’anniversario della morte di Pino, ma celebrare la sua vita e la sua musica, la sua evidente e forte presenza in tutta la città. Volevamo far vedere Napoli proprio perché Napoli è Pino, come la Giamaica è Bob Marley. Napoli è la dimostrazione che Pino Daniele non se n’è andato mai. E infine ho voluto far emergere la continuità col presente, proponendo tre giovani artisti che si esibiscono per strada e dal vivo, suonando anche pezzi di Pino”.
Oltre ai già citati grandi nomi della musica, che qua e là eseguono notevoli e struggenti versioni di alcuni dei più amati brani di Pino Daniele, il documentario riserva infatti alcune bellissime sorprese per quanto riguarda i più giovani interpreti delle sue canzoni: il primo in ordine di apparizione è il 26enne Gabriele Esposito, poi è il turno di Andrea Radice con Fabrizio Falco, per finire con Chiara Ianniciello, che insieme ad Antonio D’Agata e Giulio Scianatico accompagna i titoli di coda con i versi indimenticabili di Jè sto’ vicino a te.
“Esseri ‘neri a metà’: come siamo noi, tutti quelli che sono nati nel sud del mondo, perché c’è qualcosa che ci unisce”, spiega in una scena l’attrice Cristina Donadio. “Nero a metà vuol dire che io sono ‘quello’, ma per essere completo mi manca l’altra metà. L’altra metà è in quelli che ho di fronte, è in quelli che sembrano lontani ma sono molto vicini… Ogni volta che usciva un disco di Pino si andava a comprarlo subito, e io non vedevo l’ora di ascoltare le sue canzoni, perché la cosa bella è che lui raccontava storie. E poi quei modi di dire che sono entrati nel nostro modo di parlare, come ‘tanto l’aria s’ha da cagnà’… : ma quante volte lo diciamo?”
Passiamo al cinema. La firma di Pino Daniele compare in oltre 15 colonne sonore, ma una in particolare, Pensavo fosse amore e invece era un calesse, lo vede protagonista di un eccezionale duo creativo con Massimo Troisi, del quale lei è stato testimone diretto, e non solo. È proprio il grande amico cineasta a comporre con lui i versi di Quando, un brano che sa di poesia pura: ci racconti come è nata quella situazione.
“È stato uno dei momenti più importanti della mia vita professionale e anche personale, perché entrambi si amavano tanto. Massimo (Troisi, ndr) aveva chiesto a Pino di fargli una canzone, e lì per la prima volta ho ascoltato quel loro scambio di battute che poi gli ho sentito fare anche altrove, in cui Massimo gli diceva: ‘se tu hai un dolore sentimentale in tre minuti te la cavi a fare una canzone, io ci devo mettere un sacco per fare un film’. Siamo stati insieme due giorni a Forte dei Marmi per fare il video clip, che abbiamo girato tra lì e Viareggio, perché Pino in quei giorni aveva suonato con dei musicisti americani importanti, gli Yellow Jackets… Il suo medico non era sicuro che potesse suonare davanti a tanta gente, volevano provare come teneva il suo fragile cuore in un piccolo locale e quindi lo fecero al La Bussola: eravamo in pochi, poi andammo a cena con Pino, Massimo e un po’ di amici… Lui aveva la chitarra che non mollava mai, anche quando mangiava e beveva. Dopo disse ‘Max cantiamo qualcosa’, e Troisi lo prendeva in giro dicendo ‘ma cantiamo qualcosa di Lucio Battisti, non vedi che i tuoi testi nessuno li sa a memoria!’… Loro due avevano questo rapporto, erano molto simili, se dici Napoli dici Massimo o dici Pino, certo puoi dire anche Eduardo o Totò, ma in più loro due non sono mai rientrati in nessun cliché, non sono mai stati retorici. Ci sono tanti Napoletani che fanno i Napoletani e sono insopportabili. Loro erano ‘veramente’ Napoletani, nel senso più bello del termine, e Napoli gli deve tanto: basta pensare che l’anno di Nero a metà è uscito anche Ricomincio da tre”.
“Anche quando strimpellavamo soltanto, ci mettevamo tutto dentro, grande sentimento”, racconta sornione James Senese, che nel 1976 accoglie un pressoché sconosciuto Pino Daniele, ragazzo, nel suo gruppo che farà storia: ‘Napoli Centrale’. “Lui aveva solo la chitarra, ma a me serviva un bassista, perciò gli dissi ‘se vuoi suonare con noi il basso te lo compro io’”, e aggiunge commosso: “ai nostri concerti i ragazzi piangevano, perché quando i sentimenti escono così fuori… Ma Pino sta ancora con me, sta proprio con me”.
Avere fiducia, improvvisare, in uno scambio continuo tra culture e persone: un messaggio fondamentale per i ragazzi di oggi, lo dice anche lei a un certo punto del documentario, perché?
“Io penso che la musica sia essa stessa una rivoluzione”, chiosa Senardi. “Lo dimostra Pino col linguaggio universale delle sue canzoni. Pino è la dimostrazione reale che quando si ha un sogno non bisogna mai darsi per vinti: lui ha rivoluzionato la canzone italiana ma non solo, nonostante di difficoltà ne abbia avute tante, non solo fisiche. Io ho incontrato tanti artisti, ma ce ne sono pochissimi così appassionati e competenti sulla musica, su tutta la musica. Pino era un grande idealista e aveva un grande senso della giustizia: qualcuno gli attribuiva anche un carattere difficile o burbero, ma io non me ne sono mai accorto, non l’ho mai trovato tale. Era solo una persona molto esigente, sensibile e malinconica”.
Nero a metà
di Marco Spagnoli e Stefano Senardi
4, 5 e 6 gennaio solo al cinema
Regia di Marco Spagnoli
Distribuito da Eagle Pictures
Produzione Fidelio ed Eagle Pictures
Prodotto da Daniele Basilio, Silvio Maselli e Roberto Proia
Produttori esecutivi Francesca Andriani e Guglielmo D’Avanzo
Organizzatore Generale Carmine Daniele
Montaggio video Jacopo Reale
Direttore della Fotografia Gianluca Palma
Montaggio del Suono Marco Furlani
Musiche Pasquale Catalano
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