Dopo il successo di Caramel, l’affascinante regista e attrice Nadine Labaki torna con E ora dove andiamo?, in sala con Eagle in 100 copie dal 20 gennaio. E’ un film potente, in grado di mescolare commedia, dramma e musical per raccontare l’assurdità della guerra. Di tutte le guerre. Pur restando evidente che la pellicola si ambienta in Libano, nel mezzo dello scontro tra cristiani e musulmani, non viene mai menzionato un periodo di tempo determinato o una particolare area geografica. Facendo di necessità virtù, l’autrice ottiene il duplice scopo di evitare censure e attacchi e, con il potere della fantasia e dell’umorismo che proiettano la materia in una dimesione quasi fiabesca, di rendere ai temi affrontati una valenza universale. Grande successo in patria, E ora dove andiamo? ha vinto il premio del pubblico a Toronto ed è ora tra i favoriti per l’Oscar al migior film straniero. Ne parliamo con la regista, in occasione della presentazione della pellicola a Roma.
Da dove viene questa passione per la mescolanza? Nel film ci sono toni leggeri e toni seri, perfino un tocco di musical. Quali riferimenti l’hanno portata a questa concezione di cinema?
Mentre faccio un film non analizzo mai. Molto di ciò che ho fatto lo capisco dopo, quando mi pongono delle domande. A volte comprendo cose importanti di me proprio attraverso questo processo. Sono cresciuta in un posto dove i conflitti erano continui, noi bambini non potevamo andare fuori e ci annoiavamo molto, per questo ho sviluppato un rapporto particolare con la tv, che ci permetteva da un lato di capire cosa avveniva nel mondo, e dall’altro di sognare un posto nuovo e diverso. E’ per questo che ho sempre voluto fare la regista, per creare realtà diverse dalla mia, e poter sognare un posto migliore. E questo mix di dramma, musica e commedia mi fa sognare. A volte la situazione in Libano, e in tutta la regione, diventa così assurda che pare quasi divertente. Proprio con l’humour e la risata si comincia a guarire, vedendo i propri difetti e i propri errori. Molte donne ancora in lutto, che hanno perso i propri cari, non per questo smettono di ridere. Io le ammiro. La vita non è solo tragedia o commedia, ma entrambe le cose. Il musical mi ha permesso di dare un approccio non troppo realistico, volevo che la storia diventasse universale. Non è solo ‘musulmani contro cristiani’, il conflitto riguarda gli esseri umani, che si parli di due famiglie o due squadre di calcio. Non volevo limitare la trama a un luogo o un periodo specifico, infatti non cito mai direttamente il Libano.
L’apertura, con la danza del dolore delle donne in lutto, è molto evocativa…
Mi è stata ispirata a tutte le donne che conosco e che hanno perso un figlio durante la guerra. Continuano a piangere e a portare il lutto, e il loro dolore viene esternato spesso in modo violento: si strappano gli abiti, i capelli, si battono il petto. E’ un rituale del dolore. Non so come abbiano fatto a tirare avanti. Dedico il film a queste madri, non so come possano svegliarsi ogni giorno, lavarsi la faccia e continuare a vivere. Questi piccoli movimenti sincronizzati esprimono per me il rituale della sofferenza. La musica mi ha aiutato a creare questi movimenti, non erano certo ballerine e nemmeno attrici professioniste, molte recitavano per la prima volta quindi mi serviva qualcosa di non troppo strutturato. E’ stata anche la prima scena che ho girato, perché sapevo che mi avrebbe dato la forza di continuare, proprio perché è così potente.
Cosa ne pensa del successo del film a Toronto, specie ora che si parla di Oscar? Sente più pressione o più eccitazione?
In Libano non c’è una vera industria cinematografica, quindi realizzare un film è davvero arduo come scendere su un campo di battaglia. Proprio questo rende così speciale e sorprendente avere una tale esposizione. Toronto ci ha aperto moltissime porte. Questa visibilità ci potrebbe consentire di avere un’industria, o almeno di sognare di averla.
Le donne nei suoi film hanno un ruolo centrale. Le ritiene portatrici di pace?
Non so dare una risposta definitiva. Alla fine del film, quando gli uomini di fronte ai due cimiteri, quello cristiano e quello musulmano, chiedono ‘Dove andiamo?’, le donne non sanno cosa dire. La pace è responsabilità di tutti. Non solo delle donne e non solo dei maschi, è un problema che riguarda la razza umana. Come dicevo, non si tratta solo di musulmani e cristiani, il conflitto può verificarsi anche altrove, per esempio se salgo sulla metro di Londra vedo che le persone non si parlano e la gente non conosce la faccia del proprio vicino, che magari abita nello stesso palazzo da tanto tempo. Come donna e madre mi sento responsabile anche io per questo, e volevo parlare soprattutto di questa responsabilità. Sarà naif, ma io penso che nel mio piccolo posso cambiare qualcosa, o almeno ci devo provare. Magari non sempre i conflitti sono assurdi, ma la mia esperienza in Libano mi dice questo. Per qualche evento politico, un minuto prima si mangiava dallo stesso piatto, si comprava dallo stesso negoziante, e un minuto dopo ci si puntavano contro i fucili.
E delle cosidette ‘primavere arabe’ cosa pensa?
Ovviamentene sono orgogliosa e ho la sensazione, sebbene io abbia scritto il film molto prima, di aver dato un piccolo contributo a questa rivoluzione. Ma sono anche molto scettica: come si gestirà ciò che si è ottenuto finora? La contrapposizione tra cristiani e musulmani continua.
Ha visto ‘La donna che canta’ di Denis Villeneuve?
Sì, mi è piaciuto molto, e capisco perché si sia deciso, come del resto ho fatto io, di non menzionare direttamente il Libano. La questione è molto delicata. Cerchiamo di relazionarci agli eventi o alle date, ma a volte se sei troppo specifico non puoi dire tutto ciò che vorresti, quindi capisco il tentativo di rendere tutto più universale. Se fai cinema da quelle parti, non puoi fare riferimento a determinati eventi o partiti politici, perché sei censurato, oppure la reazione è molto violenta. E allora devi farti funzionare il cervello. Anche per questo uso l’umorismo o la fantasia, che ti permettono di dire in maniera scaltra quel che altrimenti non potresti dire.
Come è stato accolto il film in patria?
Un fenomeno, è diventato il film della nazione. Nessun’altra pellicola in Libano ha avuto risultati di questa portata. Specie ora che viaggia verso gli Oscar, tutti pregano per la nomination come se fosse il film di ciascuno. Non sono la sola a sentirlo, lo sentono i cristiani, lo sentono i musulmani. In Libano ci sono 18 confessioni diverse. Tutti sentiamo di non farcela più, tutti vogliamo la pace e una vita normale, quindi questo è ora il film di chi vuole la pace. Non ho ricevuto reazioni negative da parte di nessuno, anzi tutti parlano del tema, i talk show, tutti si chiedono come si può uscirne, come trovare la soluzione. Anche guardando i profili su facebook, “e ora dove andiamo?” è diventato una specie di slogan.
Ha scelto di girare in arabo…
E’ stato assolutamente naturale. Certo in molti in Libano parlano inglese o francese, lo facciamo fin da ragazzini, ma la nostra prima lingua resta l’arabo e volevo che tutti sentissero quanto bello e spontaneo può essere. Volevo spezzare un cliché, mostrare un lato diverso del mondo arabo, che non ha una grande reputazione purtroppo. Volevo far capire che anche in questa parte del mondo ci sono persone carine e calorose, e rendere un’immagine diversa del mio mondo al di fuori del paese. E’ stata una sfida.
Hollywood è una meta o un luogo da evitare?
Se mi fanno fare quel che voglio, ok, perché no? Ma non è il mio sogno. In qualche modo, anzi, mi spaventa l’idea di lavorare per persone che non ti danno l’ultima parola su quello che crei. Quel che voglio fare è sperimentare con la realtà. Per questo ho scelto di lavorare con non professionisti. Voglio fare film che possano cambiare qualcosa e con cui ci si possa identificare. Non prodotti di cui si dica ‘Ok. E’ il solito film con i soliti attori, non accadrà mai nella realtà’, e che magari si dimentichino dopo essere usciti dalla sala. Voglio che il cinema diventi un’arma pacifica, non violenta, ma efficace per cambiare le cose. E voglio che abbia il massimo impatto possibile.
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