Secondo film americano e secondo film con Will Smith per Gabriele Muccino. Detestato da molti critici, amato dal pubblico Usa a giudicare dall’esito al botteghino (60 mln di dollari in due settimane), arriva in Italia, da domani in 600 copie con la Sony, Sette anime, l’inverosimile favola tragica di un uomo ricco e felice che in un attimo distrugge la vita di sette persone (tra cui la donna che ama) in un incidente d’auto e che cerca poi di porre rimedio attraverso un tortuoso e autodistruttivo cammino di redenzione. Ai giornalisti viene chiesto espressamente di non rivelare la trama, di lasciare che lo spettatore si cali senza guida nel labirinto narrativo. Il divo di Hancock e Io sono leggenda la spiega così: “Per vedere questo film devi veramente concentrarti, devi fare uno sforzo intellettuale. Dopo senti il bisogno di parlarne con gli amici, di discuterne. E’ un film distante dalla sensibilità americana, un outsider”. La sua partner in scena, Rosario Dawson, bella e schiva cardiopatica che per un attimo scuote il protagonista dal suo progetto sacrificale, rincara la dose: “Muccino è uno che ti spreme, che tira fuori il massimo da te proprio quando sei esausto, un regista che non fa sconti, ma anche un regista emotivo, che ha bisogno di sentire la recitazione degli attori e che ti insegna veramente qualcosa con una straordinaria pazienza, molto italiana”. Scritto da Grant Nieporte, prodotto tra gli altri da Domenico Procacci, interpretato anche da Woody Harrelson e Barry Pepper, Sette anime (in originale Seven Pounds) conferma a pieno titolo la scelta melodrammatica dell’unico regista italiano perfettamente inserito a Hollywood. Che lancia una battuta anche su Gomorra, “L’ho trovato sublime, sarei scioccato se non venisse selezionato agli Oscar”.
“Sette anime” è un film difficile anche perché costringe una star solare come Will Smith in un ruolo tormentato e scuro.
Lo so, è un film difficile, ambizioso, direi pericoloso. Sapevo che avrebbe scatenato incendi perché era qualcosa di rivoluzionario per gli studios. Abbiamo puntato a estremizzare perché non si poteva scegliere la via di mezzo. Il personaggio di Ben Thomas, con la sua cupezza, è l’esatto opposto di Will Smith. E’ qualcuno che è morto dentro e ha una malattia mentale che lo sta divorando. Così a metà film, Will lo detestava e voleva fermarsi ma era bloccato, esattamente come il personaggio, che improvvisamente vuole riprendere a vivere, grazie all’amore, ma non può interrompere il suo piano.
Lo considera un film sull’amore o una favola sul rimorso?
E’ un film sulla capacità salvifica dell’amore. Se non siamo amati e non amiamo, ci devitalizziamo. Quello che accade a Ben, è tutt’altro che assurdo. Chi ha un incidente grave, in cui qualcuno perde la vita, ha sempre reazioni estreme. C’è chi si suicida, chi cerca di tornare indietro, chi lascia tutto per dedicarsi agli altri. Sono stato in un ospedale a Los Angeles e ho scoperto che in un anno ben sei persone avevano voluto donare un organo a dei perfetti sconosciuti.
Perché la critica americana è stata così dura con il film?
La critica, o almeno una parte della critica, l’ha ucciso, ma il pubblico lo ama. Io sono abituato alle critiche negative e spesso mi insegnano qualcosa, ma stavolta non le ho proprio capite. Come si fa a paragonare Will Smith a Tom Cruise, a tirare in ballo Scientology? Pensavo che sparare su chi ha successo fosse uno sport italiano, ma vedo che accade anche in America. Hanno detto che è un film manipolatorio, ma quale film di successo non lo è? Titanic, Sesto senso, The Others manipolano i sentimenti del pubblico. Anche La ricerca della felicità era manipolatorio, ma forse quella storia era più facile da accettare perché parlava del riscatto di un individuo.
Qualcuno ha paragonato “Sette anime” a “21 grammi” di Inarritu. Lei condivide?
Il mio riferimento è soprattutto Il sesto senso per il fatto che nella prima metà del film si fatica a capire cosa sta succedendo, eppure nessuno esce dalla sala. Questo è molto rischioso per un film di una major, costato 50 mln di dollari, ma il pubblico ha capito anche se è abituato a essere imboccato.
Cos’è cambiato rispetto alla sua prima esperienza a Hollywood in questa seconda prova?
Nel primo film avevo la fiducia illimitata di Will che mi faceva da scudo, stavolta avevo una posizione più sicura e sono riuscito a fare delle scelte più personali. Ma certamente questo è stato il film più complicato della mia carriera e spero tanto che il prossimo sia più semplice.
Stiamo parlando dell”Ultimo bacio 2″?
Lo sto scrivendo e potrei girarlo a giugno, anche il cast è a posto. Però potrebbe andare in porto prima un progetto americano a cui tengo moltissimo, si intitola What to Know about Love ed è una storia di collasso e rinascita familiare ambientata a New York.
Cosa le ha dato questa esperienza americana?
Mi ha rigenerato. Con Ricordati di me ho sentito una sorta di ripetizione che mi stava spegnendo. In America il film è un’opera industriale in cui puoi mettere la tua visione come hanno fatto Altman, Spielberg, Bob Fosse. E questo senza pudori, ma con la consapevolezza che il film sarà sostenuto con grande serietà. Molti buoni film italiani non vengono visti perché manca proprio questo.
Continuerà a lavorare con Will Smith?
Tra noi c’è un rapporto importante, ma non è un legame indissolubile.
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