MORITZ DE HADELN


Moritz De Hadeln Moritz De Hadeln, il primo direttore non italiano della Mostra del cinema di Venezia. L’uomo, scelto dal Presidente Franco Bernabè, che ha risolto brillantemente la crisi più lunga e sofferta per il festival lagunare. Un uomo al di sopra delle parti e un vero europeo. Olandese d’origine, nato in Gran Bretagna, a Exeter, nel 1940, cresciuto tra Firenze, la Versilia e la Svizzera, vive tra Berlino e Nyon, dove dirige un raffinato festival del documentario, parla tedesco e italiano, oltre che francese e inglese.
Appassionato di storia dell’arte e fotografia, autore di documentari, tra cui Le Pèlé (1963) e Ombres et Mirages, De Hadeln è innanzitutto un tecnico di prim’ordine: per 21 anni è stato alla guida della Berlinale, per cinque (dal ’72 al ’77) alla testa del Festival di Locarno, a Venezia l’abbiamo già avuto in giuria… Ama notoriamente il cinema americano e quello asiatico, che ha portato in Europa tra i primi, ma conosce e apprezza anche quello italiano. A Berlino l’ha dimostrato in almeno due occasioni: nel ’91, anno magnifico per la nostra squadra, e nel 2001, l’ultimo della sua gestione.
Il ’91 vide una tripletta azzurra: con l’Orso d’oro al Ferreri della Casa del sorriso, il premio speciale della giuria a Bellocchio (La condanna), il premio per la regia a Ricky Tognazzi (Ultrà). Merito anche del giurato Gillo Pontecorvo, naturalmente. Ma non senza la “complicità” di Moritz, che ha patito le incomprensioni con l’Italia e l’indecisione della nostra industria, più propensa ad aspettare Cannes anziché rischiare su febbraio, al punto da preferire, a volte, un posticino alla Semaine che una postazione nel concorso berlinese (leggi una nostra intervista). Il 2001 ribaltò questa diffidenza in exploit e preparò in un certo senso questa clamorosa nomina: furono nove i titoli italiani in varie collocazioni, tra cui Le fate ignoranti e Malèna in competizione. Italia Cinema gli conferì un Lifetime Achievement Award.
Il 2001 fu anche il suo ultimo anno alla Berlinale, che aveva appena trasportato nel nuovo millennio e nella nuova location post-riunificazione, dell’affascinante postmodernità di Potsdamer Platz.
Moritz, stoffa del leader e fisico imponente, uscì di scena traghettando il festival verso la gestione di Dieter Kosslick, fondò insieme alla moglie Erika una società di consulenza per strategie di mercato nel settore, si portò a casa un simpatico Teddy Bear alla carriera, l’equivalente gay dell’Orso d’oro. E chiuse in bellezza con una Moritz’s list: una retrospettiva dei suoi film preferiti, tra cui Chiedo asilo di Ferreri e Ballando ballando di Scola.
La sua filosofia? “rischiare e dare spazio ai cineasti nuovi”, ma pensando in grande stile e senza trascurare il mercato. Mentre in un’intervista rilasciata poco prima di lasciare Berlino aveva detto: “I festival sopravviveranno finché per i distributori risulterà più economico portare i film in un certo luogo, in certe data, per arrivare a qualche migliaio di giornalisti. Un sistema che, con la presenza di internet, potrebbe anche cambiare”.

autore
21 Marzo 2002

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