MORETTI


La stanza del figlio Da “Repubblica” al “Giornale”, passando per “il manifesto” è un coro di consensi e applausi all’ultimo film di Nanni Moretti, con anticipazioni fin dalla prima pagina. Sembra proprio che La stanza del figlio, opera commovente e profonda, abbia avuto ragione di quanti in passato rimproveravano al regista il narcismo, l’autocompiacimento, l’ideologismo generazionale. Così tutti d’accordo nel sottolineare la straordinaria riflessione sul dolore e sulla morte, nonché la maturità, la “metamorfosi radicale” di Moretti che colpisce al cuore, con due grandi assenze: la politica e la sinistra.

Per Lietta Tornabuoni si tratta di un “film privato, intimista, classico, molto drammatico, senza commedia, senza politica, senza ironia”; per Tullio Kezich il regista è passato “dal diario al romanzo senza perdere in mordente e attingendo anzi a una nuova maturità”; per Natalia Aspesi “è il nono film di un ex ragazzo diventato marito e padre, di un uomo maturo segreto e difficile”; per La stanza del figlio Sauro Borelli “un cinema, in definitiva, davvero maggiorenne. Anzi, maggiore”; per Roberto Silvestri, “un bellissimo film inquieto, sempre spiazzante, un film demodé, spietato e sfrontato che intrappola proprio come alcuni film ‘americani’ perfidi che Moretti odia con perfidia”.
Alla fine di tanti elogi c’è chi azzarda (Aspesi) un’interpretazione freudiana del film “la morte del figlio” significherebbe che il Moretti adulto si libera definitivamente sia pure con grande dolore, della propria adolescenza o chi, come Kezich, prevede la Palma d’oro del festival di Cannes.
Accanto alla stroncatura dalle pagine de “Il Foglio”, solo due voci in controtendenza, ma da sponde opposte: Michele Serra, morettiano doc, e Goffredo Fofi, antimorettiano da sempre. Serra in un sorprendente editoriale (“La mia generazione in lacrime”, su la Repubblica) smonta, pezzo dopo pezzo, “lo stupore mediatico per la presunta svolta di Moretti… un film non dissonante con la sua ‘satira’, già dolente quando aveva vent’anni, non dissonante con quella sua plumbea e maniacale ricerca di senso (la profondità) che lo fa amare da chi lo ama e detestare da chi lo detesta”. Per il prevedibile Goffredo Fofi il film, che celebra il funerale della sinistra, è nel segno della continuità, rintracciata “nell’immediatezza del tutto detto, tutto in superficie, tutto monodimensionale”.

La stanza del figlio Insieme agli interrogativi sul finale aperto o chiuso de La stanza del figlio, pochi azzardano influenze cinematografiche e letterarie: l’ossessione della casualità di Sliding doors; quel vedere l’impalpabile di Kieslowski e di Don Siegel; il minimalismo di Raymond Carver, ma anche Ian McEwan di Bambini nel tempo.
Infine perché Ancona, “piccola città quieta” per un grande dolore? Soltanto la Aspesi trova una spiegazione convincente: “è la città che Visconti ha voluto in alcune scene di Ossessione perché, aveva scritto, è la più triste che io abbia conosciuto”. La stanza del figlio

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