Ha scelto un tema, quello del disagio adolescenziale, poco frequentato dal nostro cinema o meglio visitato spesso in superficie. Mirko Locatelli, 33enne milanese, regista autodidatta con alle spalle l’università di Lettere non terminata, prova con il suo esordio, Il primo giorno d’inverno, di percorrere una strada meno convenzionale, diversa da quel filone giovanilista firmato da Brizzi, Moccia e De Biasi, per citare i più famosi.
La sua opera prima narra la crescita sofferta, quella di Valerio, 17enne solitario che, incapace di comunicare con i coetanei, li osserva da lontano, più interessato al cielo, al fiume e ai rami degli alberi. Valerio soffre della mancanza del padre; la madre lavora come operaia per mantenere la famiglia e la sorella più piccola Michela è il suo unico interfaccia.
A guastare questa sua esistenza in disparte sono due adolescenti, suoi ‘antagonisti’ e figli di imprenditori di provincia, che vantano vestiti alla moda e firmati. Emarginato dai ragazzi, che lo escludono perché non utilizza i loro stessi codici, alla fine Valerio decide di relazionarsi con il suo “nemico” utilizzando le stesse armi, scelta che lo porterà a una dolorosa e drammatica svolta. E alla fine Valerio non sarà più lo stesso.
In passato aveva già raccontato il passaggio dall’adolescenza all’età adulta?
Da quando ho iniziato a occuparmi di cinema, i miei corti e il mediametraggio riguardavano l’adolescenza o meglio la fatica di crescere, tema caro a me e a mia moglie, Giuditta Tarantelli, cosceneggiatrice e coproduttrice. Il cortometraggio Crisalidi è un documentario sul comportamento del corpo durante l’adolescenza, mettendo a confronto ragazzi disabili e non, il cambiamento naturale che avviene in adolescenza e quello dato dalla patologia. Insomma il tema centrale è l’adattamento alla società con un corpo nuovo.
E il mediometraggio?
Come prima racconta il ritorno dall’ospedale a casa di un 17enne che, dopo un incidente stradale, rimane paralizzato. Da allora abbiamo cominciato a studiare un po’ di psicologia dell’età evolutiva, a osservare con maggior attenzione come si comportano gli adolescenti in gruppo, a lavorare su sul loro disagio.
Quanto c’è di autobiografico in questa storia?
Tanto quanto ce n’è in qualsiasi prodotto artistico che proviene da un lavoro di approfondimento che viene fatto prima di tutto su se stessi, sul proprio passato. Anche se poi un racconto, un romanzo, un film realizzano un collage di tante vite non solo della propria.
Una storia autentica quella di “Il primo giorno d’inverno”?
E’ un film di pura invenzione che fa i conti con la realtà. E’ quel cinema del reale che ti fa credere che quella narrata sia una storia vera. Forse perché lavoriamo per parecchi mesi nella costruzione dei personaggi, dell’intreccio e dei rapporti, perché tutto sembri il più vero possibile, pur essendo fiction pura. La scrittura del film, la stesura dei dialoghi e la costruzione dei personaggi, sono allora i tre momenti più importanti del mio lavoro. E il cinema che tento di fare parte dall’eredità neorealistica italiana e dalla nouvelle vague francese…
E arriva ai fratelli Dardenne?
Altro che, ci passa proprio diritto. Il mio cinema si nutre dei Dardenne che, dal tempo de La promessa, sono stati dei punti di riferimento, anche se nel mio film, a differenza dei loro, non seguo gli attori ma li aspetto nei luoghi. Il mio film è leggero nel senso della troupe e delle attrezzature che utilizzo. Così sul set mi sono posizionato nei luoghi in cui Valerio arriva, ho voluto attenderlo mentre entra in scena, per poi farlo uscire. Ho scelto l’attesa perché il tempo e il suo scorrere sono importanti. Come nella sequenza della piscina dove Valerio nuota in modo estenuante per ore finché, quando esce di campo, rimane sullo schermo solo l’acqua.
Per Valerio ha voluto un attore non professionista?
Sì, anche se Mattia De Gasperis aveva già lavorato con me sia nel mediometraggio Come prima e in un corto. Per la parte della sorellina di Valerio è accaduto che ho visto e scelto la piccola Michela Cova che vive nel quartiere in cui vivo. Con entrambi e con gli attori che avevano un ruolo secondario abbiamo lavorato per quattro mesi, almeno tre volte a settimana, sul testo, sul contesto e sul personaggio.
Nel cast figura anche Giuseppe Cederna?
E’ un amico che lavorato già in Come prima nel ruolo del padre del protagonista. In questo mio esordio è l’insegnante di nuoto, un personaggio secondario ma non marginale, perché è l’unico riferimento adulto presente oltre alla madre di Valerio e Michela, l’attrice di teatro Teresa Patrignani.
Parlava di un intenso con gli attori?
Non si tratta delle tradizionali prove sui dialoghi, ma costruiamo ogni personaggio cercando dentro ciascun interprete delle analogie. Così come con l’attore cerchiamo amici e conoscenti che assomiglino al suo personaggio con l’obiettivo di arrivare a un’interpretazione il più fedele possibile all’originale.
E il titolo “Il primo giorno dinverno”?
Il momento più drammatico del film coincide con la notte più lunga dell’anno, il 21 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno, quando il sole sembra abbandonarci completamente. Ma è anche il momento in cui l’anno, ormai vicino alla fine, viene lasciato alle spalle e il flusso s’inverte. Un fase di passaggio che vede insieme morte e rinascita, come la fine dell’adolescenza che porta a una nuova stagione della vita.
Non ha scelto un contesto urbano per la sua storia?
Tutto si volge in un piccolo paese della campagna lombarda, Moscazzano una località di 700 abitanti in provincia di Cremona che vive d’agricoltura e che conosco bene perché vi ho trascorso un pezzo della mia vita e che mi ricorda la campagna francese. Qui abbiamo girato gli esterni, mentre gli interni sono stati realizzati a Milano.
Quali registi hanno saputo raccontare l’adolescenza?
Da subito mi vengono in mente André Téchiné, Olivier Assayas e Bruno Dumont che si sono confrontati con l’adolescenza come è davvero e non come si vorrebbe che fosse.
E in Italia?
Faccio fatica a trovare dei riferimenti, unica eccezione Kim Rossi Stuart con il suo Anche libero va bene che mi ha stupito per aver saputo raccontare il rapporto dei figli con il padre.
Costretti a autoprodurre il vostro film?
Sì grazie a Officina Film in associazione con Deneb Media e ne siamo orgogliosi. Abbiamo bussato invano a diverse porte, sia a Milano che a Roma, di produzioni minori o piccole. Alla fine è stato meglio così, non avrei innanzitutto sopportato imposizioni sui tempi di lavorazione. Importante, anche se non decisivo, il contributo dell’Assessorato all’Istruzione della Provincia di Milano, che ci ha garantito anche una serie di facilitazioni concrete durante le riprese.
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