Mimmo Calopresti: un film per non morire davanti alla tv


Il mito ingenuo del cinema e il nodo dell’emigrazione, Fellini e Marco Ferreri: una miscela eclettica e naif per L’abbuffata di Mimmo Calopresti, fuori concorso alla Festa, in sala dal 16 novembre con l’Istituto Luce, anche coproduttore. Ispirato al soggetto dell’iraniano Mahmoud Iden, trasferito da un villaggio persiano dove si attende l’arrivo di un divo americano, a un paese della costa calabrese, Diamante, dove si materializza inaspettatamente Gérard Depardieu per girare il film amatoriale di tre giovani aspiranti cineasti e viene organizzata una grande cena che si trasforma in funerale. “In questo soggetto c’era tutta la libertà e l’innocenza che Mimmo cercava. Fare una piccola cosa come attrice è stato un modo simbolico per tenere per mano il film, che per certi aspetti mi ricorda Salaam Cinema di Makhmalbaf”, dice generosamente Valeria Bruni Tedeschi. È stata proprio lei, ex compagna di Calopresti, a segnalargli l’idea. “Pensavo che l’avrebbe rifiutato come spesso fa con le cose che gli arrivano da me, invece mi ha detto subito che sentiva di poterlo fare suo”.

Perché ha subito accolto la proposta di Valeria?
Perché si fanno tanti dibattiti sul cinema. È vivo? È morto? Però i giovani hanno una vitalità forte e anch’io ho voluto fare un film come l’avrebbero fatto loro. Non bisogna andare a chiedere, bisogna prendere… Ho fatto persino le cambiali, come le faceva mio padre per comprare il frigorifero, per realizzare questo film a basso costo. Poi c’è l’Istituto Luce che ci ha creduto. E nessun finanziamento pubblico.

Il personaggio di Diego Abatantuono, il regista frustrato, l’abbiamo già visto spesso in circolazione nella realtà.
È tipico dire ‘ho mandato il mio film a Scorsese’ e poi stare fermi nel proprio eremo e criticare tutti. Ci prendiamo troppo sul serio, dovremmo uscire dalla torre d’avorio e imparare a prenderci in giro.

Lei mostra un Sud vitale e pieno di fascino, dove le mafie non sembrano trovare posto. Ma sappiamo che la realtà è ben diversa.
Io credo che il mito del Sud debba resistere e spero che ci siano possibilità reali di trasformazione. Ho voluto mostrare dei ragazzi che hanno voglia di fare e di muoversi, magari anche di andarsene, e che sono la maggioranza. Non mi piace che il Sud sia rappresentato solo come problema. Ci sono ragazzi coraggiosi che con “Ammazzateci tutti” cercano di reagire alle faide. A loro va tutta la mia solidarietà. L’unica cosa che non mi piace è il loro rapporto con il potere, perché il potere non è una cosa monolitica, il potere sei tu.

Un elemento del racconto è proprio il rapporto “bulimico” con il cibo.
È anche un ricordo di quando tornavo in Calabria da Torino insieme a mio padre e dovevo andare a mangiare a casa di ognuno dei miei zii.

C’è chi muore davanti alla tv e c’è un prete che incita i fedeli a non accenderla sperando addirittura in un miracolo.
Con la tv c’è veramente il rischio di morire di noia. Sarei contento se potessi vedere i miei film al posto di Bruno Vespa. E mi piacerebbe che Cinecittà, che era la casa di Fellini, tornasse a essere la casa dei cineasti oltre che dei reality.

La polemica contro la televisione è anche un tema felliniano.
Nel film c’è sicuramente un’idea felliniana. Il primo Fellini e il primo Pasolini sono le cose che amo di più: l’immaginario e la borgata, la finzione e la realtà. Lo ammetto ho un’ambizione poetica che si nasconde dietro quello che c’è.

Che fine ha fatto la scena girata a Cannes, a maggio di quest’anno?
È sparita dal montaggio. Il film è molto scritto, l’ha scritto la sceneggiatrice Monica Zapelli, ma è anche molto libero e ho cercato di seguire quello che stava succedendo riprendendo molte cose in diretta, come l’incontro tra Gérard Depardieu e Diego Abatantuono. Ci sono tante cose che ho verificate mentre le riprendevo.

Si vede che la diverte e la lusinga fare l’attore.
È vero. Anche se conservo un certo imbarazzo, come regista, specialmente quando mi propongono un ruolo cineasti giovani.

Il titolo, e anche il finale, cita “La grande abbuffata”.
È un film meraviglioso e ogni tanto bisogna avere il coraggio di arraffare, di copiare. Ferreri era capace di essere surreale, una cosa che non vedo fare a nessun altro. Ma imito anche un po’ i Vanzina, specialmente quando Nino Frassica manda “aff” i tre ragazzi.

Continuerà a fare documentari, come “Volevo solo vivere”?
Insegno a Napoli, nella scuola del documentario, e da quell’esperienza e dal soggiorno in quella straordinaria città, è nata la voglia di raccontare la storia di due ragazzi dei Quartieri anche loro con il mito del successo. Solo che lì il successo può voler dire camorra.

Le piacerebbe andare in America?
Molto. Invidio Gabriele Muccino.

Ama la Festa?
Mi piace che sia un luogo popolare. Ma penso che veneriamo troppo Veltroni: bisognerebbe smetterla.

autore
26 Ottobre 2007

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