“Spero che il dibattito che seguirà la proiezione al Festival di Roma, presente Giampaolo Pansa, non diventi una tribuna politica e che si parli di cinema”. Così Michele Soavi, il regista de Il sangue dei vinti che dopo alterne vicende ha trovato finalmente una sua collocazione fuori concorso, come evento speciale del pomeriggio di domenica 26 ottobre alla kermesse romana.
Dopo la coppia maledetta Luisa Ferida-Osvaldo Valenti, i volti famosi del cinema del Ventennio protagonisti di Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana, si torna a parlare dell’ultima stagione del fascismo, quella della resa dei conti con la Resistenza. All’origine de Il sangue dei vinti il libro omonimo di Giampaolo Pansa, un successo editoriale con due ristampe, che ricostruisce, grazie a una ricca e dettagliata documentazione, le vendette, le esecuzioni, le violenze, dopo il 25 aprile nell’Italia del Nord, nei confronti di chi si era compromesso con il regime di Mussolini.
Lo strascico di una guerra civile che terminò solo alla fine del 1946 e che colpì, come sostiene Pansa, anche chi colpevole non era.
Se in sala uscirà una versione rimaneggiata di 100 minuti, su RaiUno, nel primo semestre 2009, andrà in onda la versione televisiva in due parti, di un’ora e mezza ciascuna. Prodotto insieme a Raifiction da Alessandro Fracassi che comprò i diritti del libro cinque anni fa con Media One, l’idea di portare sullo schermo l’inchiesta di Pansa risale a tre anni fa, quando capo della fiction era Agostino Saccà e direttore generale della Rai Flavio Cattaneo.
“Un’opera che ha portato con sé l’aura di film da non realizzare come del resto il libro portava con sé il peso di insulti, e accuse di revisionismo. So che il produttore ha offerto la regia, prima di arrivare a me, ad altri colleghi”, afferma Soavi. Nel cast del film, girato tra il Piemonte e Roma, oltre al protagonista Michele Placido, nei panni del commissario Dogliani, ci sono Barbora Bobulova, Alina Nedelea, Alessandro Preziosi, Philppe Leroy, Giovanna Ralli e Stefano Dionisi.
Pansa, che ha collaborato al soggetto, ha visto il film?
Gli è piaciuto, perché c’è lo spirito del suo libro, anche se il volume ovviamente non è un romanzo ma un saggio che elenca quegli eventi del dopo 25 aprile, con testimonianze di fatti veri accaduti. Ne abbiamo selezionati alcuni e condensati in un’unica storia.
Che cosa l’ha colpita del libro di Pansa?
Prima del suo saggio, ho letto la sceneggiatura di Dardano Sacchetti e Massimo Sebastiani e mi ha attratto la forza narrativa, perché soppeso di più le storie che hanno colpi di scena. In verità il periodo storico non mi attraeva molto e non lo avevo mai esplorato a fondo. Ho cominciato allora a documentarmi, rileggendo anche, a distanza di tempo, un romanzo che mio padre Giorgio, scrittore di professione, aveva pubblicato nel 1962, trovandovi molte somiglianze. “Un banco di nebbia”, sottotitolo “I turbamenti di un ‘piccolo italiano'”, racconta proprio quel periodo, è una biografia, vagamente romanzata, di mio padre giovane del Nord durante gli ultimi anni del fascismo. Del resto appartengo a una famiglia spaccata a metà, come era l’Italia di quel periodo.
Divisa a metà?
Da parte materna siamo ebrei, mentre mio padre, che viveva al Nord, si arruolò allora con gli ausiliari repubblichini, ma non perché avesse chiari ideali di destra. Anzi in seguito tutto il suo percorso è stato nel segno ell’antifascismo, come tutta la mia famiglia. E io da antifascista ho voluto raccontare quelle vicende, perché parlano anche degli errori compiuti dai partigiani. E poi c’è una terza tematica che mi sta più a cuore e che supera tutte le bagarre politiche.
Quale?
Il diritto di sepoltura. Il copione del film prevedeva una sequenza dedicata alla tragedia “Antigone”, rappresentata a teatro, il testo di Sofocle che narra di due fratelli morti in battaglia su fronti contrapposti, ma allo sconfitto non viene riconosciuto il diritto alla sepoltura. Ho voluto allora che la storia del film, al di là della citazione, rappresentasse quel dilemma vecchio di duemila anni. Mi sembra giusto, a distanza di tempo, non dico la pacificazione, ma almeno il diritto paritario di sepoltura, per vinti e vincitori. La storia narrata dai vincitori la conosciamo, mentre quella dei vinti di solito viene ignorata.
Chi è il protagonista Francesco Dogliani?
E’ un commissario di polizia che il 19 luglio 1943, giorno del bombardamento angloamericano su Roma, scopre il cadavere di una donna, una prostituta uccisa nel suo palazzo al quartiere San Lorenzo. Dogliani inizia l’indagine ma proprio il bombardamento distrugge il palazzo e cancella la scena del delitto. Il commissario viene presto risucchiato dagli eventi storici, quali la caduta del fascismo e la Resistenza, e dalle vicende della sua famiglia, in particolare della sorella e del fratello che hanno scelto fronti contrapposti.
Anche Dogliani dovrebbe farlo ma non vuole decidere, forse ha paura. E’ un uomo senza qualità, si accanisce invece nella ricerca del colpevole di quel delitto iniziale e sarà in qualche modo la sua ossessione, forse proprio per paura di schierarsi. Questo commissario non sceglie e rimane testimone di quel che accade ai suoi genitori, a sua sorella e a suo fratello.
La storia viene raccontata su due piani temporali: ciò che accade allora nel ’44 e ’45 e quel che avviene nei primi anni ’80 quando ormai Dogliani è un uomo vecchio, ancora impegnato a scoprire quell’assassino. Il film parte da qui con lui che ripercorre tutta la storia a ritroso, fino ad arrivare a una conclusione.
C’è chi parla già del suo film come di un’opera revisionista.
Lo lascio dire a chi l’ha già affermato a proposito del libro di Pansa. Faccio il cineasta, non lo storico. Ho provato a raccontare una storia come fossi un estraneo, senza schierarmi necessariamente da una parte o dall’altra. Soprattutto mi interessa vedere che cosa il film alla fine suggerisce al pubblico.
E che cosa colpirà gli spettatori?
Che quelle poche persone oggi sopravvissute a quegli avvenimenti storici e personali, anziani di 80 e anche di 90 anni, cercano ancora dove sono stati sepolti i figli. E’ una tematica universale che supera la contingenza politica e la polemica sul revisionismo.
Ha sempre firmato fiction per la tv che trattano temi scottanti e difficili della cronaca e della storia del nostro Paese, come mai?
Sento come un dovere quello di raccontare le piaghe della nostra storia, che sono ancora ferite aperte. Come le nuove Brigate rosse e l’assassinio di D’Antona e di Biagi, in Attacco allo Stato. Credo che il compito di un regista sia di far conoscere al pubblico anche qualcosa in più di quello che già sa, restituendo le esperienze personali e umane dei protagonisti. Forse gli spettatori di Nassirya non sapevano che i carabinieri, una volta scesi all’aeroporto di Tallil in Iraq, hanno dovuto firmare le regole del codice di guerra, quando per noi la loro presenza in quel paese era collegata ad attività di peacekeeping. Del resto Nassirya non lo voleva realizzare nessuno, e il Tribunale militare mi ha convocato per chiedermi da chi avessi avuto alcune informazioni e come mai ne fossi al corrente.
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