“E’ più vicino a Spielberg che a Sam Peckinpah”. Lo dice l’attore Michele Alhaique dell’ultimo film di cui è interprete assieme a Vinicio Marchioni, Cavalli di Michele Rho. Presentato a Venezia 68 nella sezione Controcampo, prodotto da Gianluca Arcopinto per Settembrini Film in collaborazione con Rai Cinema, in uscita il 21 ottobre con Lucky Red, è un western italiano decisamente atipico. Abbiamo detto di proposito “italiano”, e non “all’italiana”. La storia infatti, tratta da un romanzo di Pietro Grossi, si ambienta in un villaggio situato in qualche tempo e qualche luogo nell’Italia del 1800, con l’indeterminatezza del fantasy e delle fiabe ma anche con la credibilità di una ricostruzione accurata. Al centro della vicenda, due fratelli diversi ma uniti. Uno legato al richiamo della natura e della campagna, l’altro affascinato dalle luci della città. Una faida familiare. E due cavalli, bellissimi, ma selvaggi, con cui i due sviluppano un rapporto di simbiosi che li aiuta a prendere le decisioni della vita.
E’ singolare che l’attore, intervistato da CinecittàNews, citi proprio Spielberg, il cui prossimo film, War Horse, ambientato nell’Europa della Prima Guerra Mondiale, racconta della forte amicizia che si sviluppa tra un cavallo e un giovane che lo addomestica e lo addestra.
“Non ho visto ancora il trailer – racconta Alhaique – ma lo farò appena posso. Mi piace il cinema americano. Ho visto invece Super 8, ma non ne sono rimasto particolarmente colpito, nonostante le ottime premesse e la potenza visiva innegabile”.
“Super 8” a parte, il cinema americano le piace?
Certamente, e in particolare penso di essere il più grande fan italiano di Michael Mann. Un regista in grado di ricoprire molti generi. Il suo Alì è uno dei film più sottovalutati della storia del cinema. Dentro c’è tutto. Senza nulla togliere a J.J. Abrams, che gira come girava Spielberg dieci anni fa, abbiamo bisogno di autori che sperimentino di continuo. Mann è uno di quelli. Verrà compreso davvero forse tra molti anni. Sono curioso di vedere Texas Killing Fields, il film di sua figlia, che immagino cresciuta sui set con il padre. Lo farò appena esce. In Italia, ad esempio, thriller del genere non li sappiamo fare.
E come attore, quali sono i suo punti di riferimento?
Sean Penn su tutti.
Tornando a ‘Cavalli’. Lo considera un film di genere o un dramma?
Non si può dire che sia un film di genere, se non per il fatto di essere in costume, ma questo non basta per fare il ‘genere’. La scena iniziale in questo senso è abbastanza eloquente. Non c’è ostentazione della violenza, come in molti western tradizionali. Potrebbe essere una storia raccontata da un nonno, o da amici di amici, come se fosse una leggenda che si tramanda.
Ci parli del suo personaggio…
Non si può parlare del mio senza prendere in considerazione anche quello di Vinicio. Sono due facce della stessa medaglia. Rappresentano l’essere umano in generale, non solo l’italiano, nelle sue due sfaccettature principali: da un lato la necessità scoprire il mondo, di sapere cosa c’è “oltre”, dall’altra l’esigenza di mettere radici. E questo rispecchia l’universalità del racconto, che è anche la bellezza del film. Il mio personaggio Pietro si sente legittimato a restare, proprio perché una parte di sé, il fratello Alessandro, è andata oltre le montagne a vedere cosa c’è. Sono indissolubili.
Marchioni nel film è quello che vuol scoprire il mondo. Pensa che avreste potuto scambiarvi i ruoli?
No. Avrei potuto fare il suo personaggio, ma non so se lui avrebbe fatto il mio. Il rapporto che si è creato tra di noi è unico. In un certo senso lui è proprio come Alessandro, che torna dal fratello e gli porta un immaginario della città che lui non conosce per nulla. Vinicio mi ha portato un bagaglio di esperienze che mi hanno fatto crescere. Io invece mi rispecchio solo in parte nel mio Pietro, che è lo stanziale della situazione, mentre in me è connaturata la voglia di spostarmi, di scoprire.
Le faccio il nome di un’altra interprete del film: Giulia Michelini
Un’attrice straordinaria, che riesce a rendere tutto molto completo, anche quando magari recita in fiction dalle sceneggiature lacunose, sa rendere credibile la sua performance.
Manca ancora un attore con cui ha lavorato: il cavallo
Ho avuto la fortuna di poter prendere molte lezioni, grazie alla produzione, ed è stata la chiave vincente perché poi sul set non ero preoccupato di cosa faceva il cavallo e di dove dovevo mettere il piede, potevo pensare solo al personaggio. Il rapporto con il cavallo è esclusivo. Ho lavorato sempre con lo stesso animale, se dovessi mettermi in sella a un’altra bestia non so cosa potrebbe accadere. Ogni cavallo è diverso dall’altro, devi imparare a conoscere la sua reazione, che varia a seconda di quello che tu fai. Da una parte questo è molto divertente, dall’altra molto difficile. Nulla è prevedibile. Non è come essere in moto e innestare le marce. E poi, sai, un cavallo abituato a stare in un posto ovattato come un maneggio sull’Appia Antica, arriva sul set a contatto con altri cavalli e una troupe addosso…non si sa mai come la può prendere.
Progetti per il futuro?
A marzo uscirà Qualche nuvola di Saverio di Biagio, che è stato a Venezia, e poi entro fine novembre Il delitto di via Poma di Roberto Faenza, per la televisione.
Cosa cambia nel recitare in tv, rispetto al cinema?
Non è che abbia esperienza di grandi produzioni. Certo, sono stato sul set di Nine, ma il cinema Usa è tutt’altro sport. Sostanzialmente, dipende da cosa fai in tv. Il prodotto di Faenza, ad esempio, è in un’unica puntata, quindi molto simile a un film per la sala. I tempi erano gli stessi. Generalmente direi che in un film per il cinema c’è più attenzione sugli attori, perché vedere una faccia su grande schermo è inevitabilmente diverso da vederla su una piccola televisione. E’ anche comprensibile che, in tv, si corra un po’ di più per portare a casa il girato nei tempi giusti.
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