VENEZIA – “Scusate il ritardo, faccio documentari e non ho tre o quattro star da dare in pasto ai giornalisti per le interviste, devo sbrigarmela da solo”. Michael Moore è atteso da una platea affollatissima, una delle più affollate di questo festival nella domenica dell’omaggio alla Pixar. Il suo film contro il capitalismo ha scosso la Mostra e del resto l’ex operaio di Flint, Michigan è ormai una star. Sono passati vent’anni da Roger & me, ha vinto un Oscar, ma continua a pestare il pedale sugli stessi argomenti, le disuguaglianze e le ingiustizie dell’America, con il suo stile che ricorda un po’ le quello delle “Iene”. E’ anche amico di Sabina Guzzanti, con cui vorrebbe fare un tour teatrale in Italia prendendosela con il presidente del Consiglio Berlusconi con uno spettacolo.
E’ presto invece per pensare al prossimo film e allora concentriamoci su Capitalism: a Love Story, due ore piene per affastellare prove contro il sistema economico e di potere di Wall Street. E’ un po’ la scoperta dell’acqua calda – i magnati della finanza, le assicurazioni e le banche che non hanno scrupoli nel perseguire il profitto – ma il regista di Bowling a Columbine, Sicko e Fahrenheit 9/11, con tono diretto, indignato, a tratti didascalico, ma sempre con molto senso dell’ironia, raccoglie testimonianze e cifre che vanno tutte nella stessa direzione, capitalismo e democrazia si escludono. Una speranza può forse venire dalla presidenza Obama, anche se i grandi gruppi starebbero già tentando di ammorbidirlo con opportuni finanziamenti. Secondo Moore, la banca Goldman and Sachs avrebbe finanziato la sua campagna presidenziale con un milione di dollari, “ma non credo che riusciranno a possederlo”, dice il regista.
Attesissimo al Lido, dove è stato accolto con applausi e ha creato lunghe code davanti alle sale di proiezione, Capitalism: a Love Story, che uscirà il 2 ottobre sia in Italia che negli States, nasce come elaborazione del lutto dopo il crack del luglio 2008. Una crisi che ha provocato in pochi mesi un’esplosione di nuova povertà (mentre per le banche c’è stato un salvataggio da 700 milioni di dollari che Moore definisce “colpo di stato finanziario”). Non c’è solo la “politica” lobbistica di Bush e del segretario del Tesoro Larry Summers, sotto accusa, ci sono le corporation che stipulano assicurazioni sulla vita sui loro dipendenti scommettendo su un decesso prematuro e arrivando a incassare fino a 1 milione e mezzo di dollari; oppure le banche che “rifinanziano” le proprietà immobiliari con mutui a tasso variabile che in pochi anni arrivano a cacciare di casa i piccoli proprietari gravati da debiti. Il tutto condito da parole dal dubbio significato come “derivati” e “subprime” che neppure gli economisti di Harvard sanno decrittare.
L’uno per cento delle popolazione americana gestisce circa il 90% delle ricchezze: è come chiedere a due lupi e una pecora che cosa vogliono per cena… Ma i lavoratori Usa sembrano convinti ad alzare la testa come dimostrano le recenti esperienze di lotta collettiva in una fabbrica di Chicago e le occupazioni delle case requisite. La soluzione? Una seconda carta costituzionale che già Roosevelt aveva vagheggiato prima di morire e che garantirebbe diritti altrove fondamentali come l’istruzione, la sanità e la casa.
Il sogno americano è definitivamente seppellito con questo film così duro nel mostrare i meccanismi del potere?
No, continuiamo a credere nella democrazia e nella giustizia. E’ difficile dire cosa sia “democrazia” quando è l’economia a guidare la vita della gente. E non siamo certo democratici solo perché votiamo ogni tre o quattro anni. Ma io mi chiedo: perché non appena si timbra il cartellino in una fabbrica si deve rinunciare ai propri diritti costituzionali? La democrazia va vissuta ogni giorno e non solo nella cabina elettorale.
Insomma, c’è ancora qualche speranza?
Tre o quattro anni fa, un presidente afroamericano sembrava una cosa impossibile. Ma niente è impossibile. Il Muro di Berlino è crollato, Mandela è uscito dal carcere ed è diventato presidente. Tutto è possibile se i popoli si ribellano in modo non violento, come è successo in Sudafrica o nell’Europa orientale. Il 4 novembre 2008 è iniziata la rivolta degli americani. Certo, Obama non può fare tutto, gli americani devono essere attivi come cittadini. La democrazia non è uno sport che si guarda alla tv.
I documentari servono a incidere nella realtà e modificarla? “Sicko” ha cambiato qualcosa nel sistema sanitario americano?
Oggi il sistema sanitario è oggetto di una riforma, che le case farmaceutiche osteggiano apertamente perché non ne trarrebbero alcun profitto, anzi ci perderebbero. Ma spero che Obama tenga duro e che i membri democratici del Congresso lo sostengano fino in fondo.
Pensa di entrare in politica prima o poi?
No, sono stato consigliere della mia città in passato, ma oggi penso che i miei film e i miei libri siano più importanti per cambiare le cose. Quando andai a Cannes nel 2004 con Fahrenheit 9/11, che poi vinse la Palma d’oro, rappresentavo una sparuta minoranza che si opponeva alla guerra e a Bush, oggi quelle idee sono condivise dalla maggioranza degli americani. In futuro potrei anche smettere di fare documentari e passare alla fiction, ma sempre trattando argomenti di denuncia sociale.
Quando progetta un film da cosa parte?
Cerco di stare dalla parte del pubblico. Voglio che i miei film siano divertenti, che valga la pena di uscire di casa il venerdì sera per andare al cinema, e spero che siano un’esperienza catartica, che possano insegnare qualcosa, che possano sorprendere. Nella sinistra americana sono uno dei pochi fortunati ad avere un grosso seguito.
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