VENEZIA – “Nessuno in questa giuria può parlare a titolo personale o in nome della sua nazionalità”. Secco, e anche un po’ sgarbato, quasi dittatoriale, il presidente Michael Mann toglie per due volte la parola a Matteo Garrone, il giurato italiano, sollecitato dalle domande dei giornalisti a dare qualche spiegazione sul verdetto. Non ci sarebbe niente di strano, ma per il regista americano una domanda simile è quasi un delitto di lesa maestà. Almeno a giudicare dalla reazione. E mezza giuria (l’altra mezza tace) fa quadrato attorno al “master”, specie Samantha Morton (“il fatto che siamo a Venezia non vuol dire che dobbiamo premiare un film italiano”), mentre il regista di Reality rinuncia a dire la sua, anche perché la sua voce è sovrastata dalle altre.
Non dev’essere stata una passeggiata, il lavoro della giuria di questa 69 Mostra. Italiani a parte, pare anche che Mann volesse dare a tutti i costi il Leone d’oro a The Master – così almeno sostiene The Hollywood Reporter – poi ha ripiegato sulla doppia Coppa Volpi a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix – indiscutibilmente bravi e quasi in simbiosi nel film sul fondatore di Scientology – arricchita poi dal Leone d’argento (che per una strana confusione era stato consegnato a Ulrich Seidl per poi correggere la gaffe in corso d’opera). Mai premiazione è stata più sbrigativa, impacciata e triste. Se si eccettuano due momenti divertenti: l’uscita di Philip Seymour Hoffman, appena sceso dall’aereo e stravolto dal jet lag che dice: “non giudicatemi per come sono vestito, mi sono cambiato alla toilette”. E Kim Ki-duk, di fatto rinato dopo una crisi depressiva durata tre anni, che canta Arirang, cioè la canzone del film-diario dei suoi anni bui, che doveva essere l’addio al cinema.
Ma tornando al mancato Leone d’oro a The Master, se le cose stanno come scrive THR, si capisce meglio la strana premessa fatta dal presidente sul palcoscenico della Sala Grande, e ripetuta pari pari in conferenza stampa, sul modo di lavorare della giuria: “Agli Oscar si possono dare tutti i premi a un solo film, mentre per il regolamento della Mostra il Leone d’oro non si può cumulare al premio agli attori. Non dico che una regola sia meglio o peggio dell’altra, ma abbiamo dovuto farci i conti e l’abbiamo fatto con scrupolo e serietà”. Pietà di Kim Ki-duk, sicuramente uno dei film più amati di questo festival, li ha messi d’accordo con la descrizione di un universo di violenza efferata che sfocia in una trasformazione spirituale. I giurati l’hanno scelto di pancia.
Trascurando il magnifico Thy Womb di Brillante Mendoza e anche, sia detto non per spirito di bandiera, Bella addormentata di Marco Bellocchio. Dopo il mancato Leone d’oro per Buongiorno notte, anche stavolta è arrivato un premio di consolazione. Allora fu la sceneggiatura, stavolta è il Mastroianni al giovane Fabrizio Falco, in condominio con E’ stato il figlio. E’ piaciuto Bella addormentata? E’ stato almeno apprezzato e compreso? Nulla è dato sapere: “Il modo in cui siamo arrivati alle decisioni è privato. Non abbiamo tenuto in nessun conto il criterio della nazionalità, ma solo i valori estetici e l’integrità. Non è stato facile scegliere, ci sono volute ore e ore e quattro riunioni”, dice Mann, sempre più infastidito. Incalza Marina Abramovic: “Veniamo tutti da paesi diversi e Matteo è l’unico italiano”. Stop.
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