LOCARNO – Il Sud America, da sempre, è una di quelle terre che – al contempo – possono essere paradiso e inferno, destinazioni idilliache o punti di fuga, o d’approdo dalla fuga, opzioni – queste ultime – che portano sempre con sé vicende complesse e mai strettamente soggettive, infatti, spesso, come nella storia che César Díaz porta a Locarno77, non si racconta il vissuto del singolo, qui una madre, che compiendo una scelta sociale innesca un effetto domino, sul proprio bambino, Marco (Matheo Labbé).
Mexico 86 è l’autobiografia del regista guatemalteco che ha studiato sceneggiatura a La Fémis di Parigi e che porta in Piazza Grande la sua opera seconda, affidando il ruolo di sua madre a Bérénice Béjo, dall’identità trasformista nella vita – quindi sullo schermo – per necessità di sopravvivenza.
“Questo film nasce dalla mia necessità di esplorare il rapporto madre-figlio, e di come si possa creare una relazione profonda anche in caso di separazione forzata; sicuramente fa parte della mia biografia. È una riflessione sulla donna e sulla maternità. Una madre crea un nuovo mondo per un figlio ed è un sacrificio per il bene, quello di un Paese ma anche del figlio, per dargli un mondo migliore”, spiega il regista per cui “è un film necessario, per immedesimarsi con chi in America Latina abbia vissuto la dittatura; qualcuno può trovare la riflessione anacronistica ma credo ci sia un’analisi interessante sul radicamento dei manifestanti guatemaltechi, bisogna ricontestualizzare, bisogna riflettere sull’impegno individuale: non si costruisce una società con i Like su Facebook, ma si trasforma grazie a chi si alza e dice: basta”.
“È un tema delicato e pesante al tempo stesso”, continua Béjo, che spiega come “la proposta del film è stata un modo per parlare anche della mia famiglia, fuggita dalla dittatura argentina, con molti ‘non detti’; infatti, ho pensato che facendo il film di César avrei avuto delle risposte alle mie domande mentre facendo il film mi sono pacificata senza bisogno di risposte: ci sono persone che parlano e altre no, e non bisogna giudicarle. Quando ci siamo incontrati, lui mi ha detto: ‘io ho due figli e non potrei mai lasciarli, e non capisco come abbia fatto mia madre, ma ci sono persone capaci di scegliere una causa più grande’. Viviamo in un mondo così egocentrico che mi chiedo: sapremmo farlo oggi? Se non ci fossero madri come la sua non ci sarebbe un mondo libero; una soddisfazione cercata al di là della maternità non rende queste donne delle cattive madri, abbiamo bisogno di madri così…”, come anche dell’imprescindibile nonna della vicenda (Julieta Egurrola).
Se Díaz è davvero nato nel 1978, la storia su grande schermo comincia due anni antecedenti a Città del Guatemala, dove il pianto domestico di un neonato convive con il rumore degli spari nelle strade: Maria, attivista rivoluzionaria guatemalteca, è in prima linea contro la dittatura militare corrotta; le sue prese di posizione esplicite innescano minacce di morte: la donna, la mamma, deve lasciare lì il suo piccolo e fuggire. Il Messico, così, si fa destinazione, protezione ma anche strappo; per 10 anni la distanza emotiva viene alimentata, finché Marco si ricongiunge a lei, che è rimasta fedele a se stessa, al suo credo militante, e l’arrivo del bambino la costringe a un’altra scelta: ritorna il dilemma, madre o attivista? Ci sono la disciplina e le regole ferree di quel sistema, i comandi a cui una rivoluzionaria, per essere tale, deve aderire, fino in fondo, a prescindere da tutto, dalla maternità come dalla morte.
“Fare questo film ha significato confrontarsi con la ribellione armata di mia madre, pur restando una madre. Gli attivisti si dedicano anima e corpo alle trasformazioni sociali, ma non hanno spazio per svolgere il ruolo di genitori”, commenta Díaz, che ha scelto il genere thriller per un film intimo, ma anche politico: “credo che ogni regista faccia film che gli piaccia anche guardare come spettatore. Voglio lasciare però anche spazio al pubblico, che credo debba comprendere le tensioni di quell’epoca, tra nascondersi e darsi dalla latitanza, per cui il genere mi permetteva di creare empatia”, aggiunge lui.
Un’empatia che Bérénice Béjo confessa di aver creato anche con il bambino che recita la parte di suo figlio sullo schermo: “il mio rapporto con Matheo è straordinario, è un ragazzino molto intelligente, aveva completa fiducia in Cèsar, avrebbe fatto qualunque cosa per lui. Se succedeva un imprevisto reagiva a tono, cosa che solo i grandi attori sanno fare: lo chiamavo ‘il mio piccolo Leonardo DiCaprio’. Mi sono lasciata andare alla sua energia, ho pianto molto quando l’ho salutato alla fine delle riprese. Ha uno sguardo, un volto, una dolcezza pieni di grande cuore”.
Un piccolo-grande attore su cui Díaz precisa: “avevo chiesto alla produzione di farlo venire in Francia e farlo vivere da Bérénice una settimana, perché prendessero confidenza, ma poi abbiamo capito non fosse una buona idea, perché avrebbero creata un’intimità – che poi s’è creata sul set – ma perché accadesse davvero dovevamo prolungare al massimo il momento dell’incontro, come succede nel film”.
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L’intervista all’autore, che a Locarno77 riceve il Pardo alla Carriera e presenta La vita accanto, scritto anche con Marco Bellocchio e interpretato da Sonia Bergamasco, con Paolo Pierobon, Valentina Bellè, Sara Ciocca, e dalla pianista Beatrice Barison. Dal 22 agosto al cinema