CANNES – Ci sono film che hanno senso di esistere solo nell’ambiente protetto e comprensivo dei festival. La cinematografia ermetica e anti-narrativa del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul, vincitore della Palma d’oro nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, ricade perfettamente in questa definizione. Non fa eccezione, anzi forse si spinge anche più in là, il suo ultimo film Memoria, presentato in Concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes
Primo film ambientato fuori dal paese natale del regista, per la precisione in Colombia, il film vanta la presenza di una diva di Hollywood, nonché paladina del cinema indipendente e d’autore, come Tilda Swinton, già presente in Concorso a Cannes nel film di Wes Anderson. In Colombia per visitare la sorella archeologa, Jennifer è ossessionata da un suono, una sorta di boato sordo che arriva all’improvviso e che solo lei sente. Nel suo viaggio in territorio straniero, la donna incontra un tecnico del suono e un eremita, chiamati entrambi Hernan, con i quali dovrà capire se quel rumore è solo un sintomo di una sua lenta progressione nella pazzia.
Ciò che più caratterizza il film, oltre al chiuso simbolismo dei dialoghi e della trama, è un ritmo lento in maniera esasperante. Un cadenzato susseguirsi di inquadrature dove tutto accade senza la minima fretta, con uno sguardo simile al documentario d’osservazione più che al cinema di finzione e con un utilizzo quasi esclusivo di campi medi e totali, che ci impediscono di vedere i particolari dei volti o i dettagli degli oggetti.
“Questo film per me deve insegnarci a respirare ancora, soprattutto dopo il lockdown – spiega Apichatpong Weerasethakul – ed è qualcosa di collettivo, come l’esperienza che abbiamo avuto ieri sera in sala. Cercare di sincronizzarsi al ritmo della protagonista e assimilare la morte. Fermarsi, fermare il racconto, il pensiero e semplicemente sentire ed esistere”.
Un approccio che apprezza molto anche la protagonista Tilda Swinton, che si è letteralmente lasciata trascinare dall’approccio artistico del regista: “Questo film ci ha dato l’opportunità di liberarci dai modelli precostituiti per camminare sulla neve fresca, ed è questo che facciamo con l’arte. Credo che anche il pubblico di ieri sera abbia capito che la grande arte ci dà l’occasione di rallentare e semplicemente camminare, un passo dopo l’altro. Sono davvero rimasto impressionato dal pubblico di ieri sera e dalla sua capacità di accettare la sfida”.
L’incomunicabilità traspare in ogni aspetto nel film, anche nell’uso linguistico, con la scelta dello spagnolo come lingua principale. Una sfida sia per il regista, che ha dovuto “negoziare per ridurre la velocità dello spagnolo colombiano, ma senza snaturarlo, per permettergli di riflettere il ritmo del film”, ma soprattutto per Tilda Swinton, che come tutte le grandi artiste, in ogni difficoltà trova un’opportunità. “Quando non parli nella tua lingua madre – spiega – devi fare lo sforzo di esprimerti, di farti capire e accettare l’inevitabilità del fatto che tu possa non essere capito. Penso sia una cosa bellissima”.
Consacrati al festival i talenti cresciuti nell’incubatore torinese e premiati 3 film sviluppati dal TFL, laboratorio internazionale del Museo Nazionale del Cinema che dal 2008 ha raccolto 11 milioni di euro di fondi internazionali
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