CANNES – Bambine vendute a 11 anni come mogli, ragazzini costretti a lavorare anziché andare a scuola, neonati comprati per 500 dollari. E’ un’infanzia completamente deprivata quella al centro di Cafarnao, il film della libanese Nadine Labaki (Caramel, Et maintenant on va ou?), che a Cannes ha vinto il Premio della giuria. Un melodramma della povertà – con parentele con film di successo come The Millionaire – che racconta l’odissea di Zain (Zain Al Rafeea, bimbo siriano con un percorso molto simile di privazione di diritti fondamentali): un ragazzino di cui non si conosce neppure l’età esatta – che viene certificata attraverso una visita medica – perché i genitori non l’hanno mai registrato all’anagrafe (farlo costa ben 150 dollari). Poverissimi, ignoranti, maneschi, incapaci di garantire un minimo di cure almeno affettive alla miriade di pargoli che mettono al mondo senza pensarci su, anzi considerandola una benedizione, i due non esitano a vendere per qualche gallina una figlia undicenne al vicino di casa che gestisce una bottega di alimentari. E così nella prima scena vediamo Zain in tribunale: è in manette per aver accoltellato “un bastardo”, come dice lui, ma contemporaneamente ha fatto causa ai genitori. Motivo: perché l’hanno messo al mondo.
Il terzo lungometraggio dell’attrice e regista, che uscirà l’11 aprile con Lucky Red, vuole essere una bomba a mano lanciata contro lo spettatore con le sue assillanti domande sull’umanità migrante, senza diritti e senza identità, e sulla nuova schiavitù. Un film manifesto, se vogliamo ricattatorio, ma anche molto potente nelle immagini di devastazione che propone. E’ un universo caotico – “capharnaum” è una parola che in francese indica proprio “una grande confusione di oggetti e persone” – dove l’umanità scompare del tutto, il povero fa guerra al più povero, e la pietas si trova annidata solo nelle pieghe più riposte, nella dolcezza stordita di un vecchietto o nella madre eritrea, immigrata clandestina, che fa di tutto per salvare il suo neonato nascondendolo al mondo.
Tutti gli attori sono non professionisti con storie molto vicine a quelle dei personaggi e Labaki ha girato per sei mesi con 520 ore di materiali – con un grande impegno produttivo – proprio per ottenere il massimo da questo cast variegato. “Il film – racconta la regista, che si è ritagliata il ruolo dell’avvocato di Zain – nasce dal fatto che, insieme a mio marito Khaled Mouzanar, compositore di musica popolare e anche produttore del film, ragionavo su quello di cui volevo parlare, le mie tante ossessioni del momento. Lui mi ha detto proprio così, questo è un ‘cafarnao’. Avevo scritto tanti foglietti con i temi che mi interessavano e li avevo appiccicati su una lavagna in soggiorno: immigrati illegali, bambini maltrattati, il concetto di frontiera e la sua assurdità, il fatto che abbiamo bisogno di un certificato per provare che esistiamo e che senza quel certificato non si può emigrare, andare a a scuola e neanche essere curati all’ospedale, il razzismo, la paura dell’altro, l’indifferenza alla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia…”. Una enorme ricchezza di temi travasata nel film che, bisogna ammetterlo, riesce ad addomesticare questo magma incandescente soprattutto grazie alla presenza scenica del piccolo Zain.
La regista, che ritiene di aver evitato la cosiddetta “pornografia della povertà” con la sua estrema fedeltà alla verità, ha tenuto a sottolineare come tutti gli interpreti siano persone che mettono in scena sostanzialmente la propria storia. “Il neonato Yonas, per esempio, è una bimba. Abbiamo cercato a lungo un bebè che avesse quelle caratteristiche, doveva avere circa un anno e stare imparando a camminare. Siamo noi della troupe che ci siamo adattati alla verità di questi bambini che non recitano, ma sono se stessi. Anche per Zain abbiamo fatto un casting selvaggio nelle strade, doveva essere bello, intelligente, più piccolo di statura rispetto alla sua età”. Addirittura Yordanos Shiferaw, la giovane etiope che ha il ruolo della mamma di Yonas, è stata arrestata durante la lavorazione del film perché non aveva il permesso di soggiorno ed è uscita dal carcere grazie ai buoni uffici della produzione. “Ringrazio la regista che mi ha dato la possibilità di raccontare la mia storia a tutti”, dice tra le lacrime. “Quello che avete visto è esattamente la mia vita, l’unica differenza è che io non ho avuto un bambino”. Infine è il produttore Khaled Mouzanar a intervenire: E’ rivoltante che qualcuno debba andare in carcere solo perché è sans papier, senza aver commesso alcun crimine, il film è una ribellione anche a questo”.
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