Maya Sansa: “L’Italia imita il peggio di Hollywood”


M.SansaMirra, la giovane figlia del cipriota Cinyra, si trasforma in arbusto dopo aver consumato l’incesto col padre che quando ha scoperto di essere stato ingannato e sedotto, l’ha cacciata. La ragazza, in preda a un’angoscia terribile, ha tentato il suicidio, ma un’anziana nutrice l’ha salvata e ora rievoca la propria colpa, senza tuttavia rinnegare il desiderio indomabile che l’ha mossa. Sono le “Metamorfosi” di Ovidio, nella traduzione del poeta inglese Ted Hughes, e le parole di Mirra esplodono in un sussurro struggente e violento grazie a Maya Sansa. L’attrice italo-iraniana amata da Marco Bellocchio e Marco Tullio Giordana è infatti tra i protagonisti di una pièce ispirata a sette storie delle Metamorfosi, uno spettacolo nato da un singolare percorso di ricerca sul corpo e soprattutto sulla voce curato da Kristin Linklater, coach di attori come Sigourney Weaver e Bill Murray, insegnante alla Columbia University e in queste settimane impegnata in una trasferta italiana che la porterà, domenica 20 aprile, a tenere una lezione aperta presso il Teatro Studio Eleonora Duse di Roma a cura dell’Accademia Silvio D’Amico. Il metodo di Kristin, amato da Peter Brook come dalla Royal Shakespeare Company di Londra, è “liberare la voce naturale e abbattere gli ostacoli psicofisici che impediscono di comunicare l’intera gamma delle emozioni umane”. Difficile da spiegare (ma si può approfondirne la conoscenza attraverso un libro, “La Voce Naturale”, appena ripubblicato in Italia da Elliot Edizioni) ma davvero emozionante da “vedere”. Come dimostra il documentario di Alessandro Fabrizi, Giving Voice, girato nel giugno del 2005 sull’isola di Stromboli, dove un gruppo di 15 attori di diversa provenienza ed esperienza, tra cui Maya Sansa e il suo compagno Fabrice Scott, si sono riuniti per dare la “vera” voce alle Metamorfosi.

Com’è nata quella esperienza?
Conoscevo Alessandro Fabrizi dai tempi del liceo, quando ho iniziato a interessarmi alla recitazione. Quindi è stato un regalo quando mi ha proposto di partecipare alle cinque settimane del seminario – insieme ad attori americani, francesi, italiani, belgi – chiedendoci anche di poter filmare il nostro lavoro. Il film, autoprodotto, è stato girato con grande gusto e con rispetto. Alessandro ci ha sempre chiesto se poteva montare le scene che ci riguardavano e che spesso sono emotivamente molto intense.

Qual è stato il confine che il documentario non ha voluto valicare, pur mettendo tutto il percorso che avete compiuto allo scoperto?
Credo che Giving Voice sia in qualche modo una risposta ai reality, dove le emozioni sono puro intrattenimento, perché mostra il lavoro che sta dietro al mestiere dell’attore e la differenza tra un attore e un burattino che gioca d’azzardo, un qualcosa a cui, purtroppo, ci ha abituato il Grande Fratello. Del resto Kristin Linklater, pur facendoti lavorare sul tuo bagaglio personale ed emotivo, non ti chiede mai qualcosa di tuo perché tutto avviene attraverso parole non tue, che siano le parole di Shakespeare o di Hughes. Ci tiene a mantenere i due mondi separati.

Lei è sempre stata un’attrice molto internazionale, a partire dagli studi a Londra alla Guildhall School of Music and Drama e ora ha deciso di vivere a Parigi.
Sicuramente sono un po’ nomade, ma nella mia scelta conta anche la sfiducia nel cinema italiano, dove manca un sistema che ti sostiene e dove ti senti un po’ vampirizzata. Oggi, mi sembra che si cerchi di imitare la peggiore Hollywood. Ho assistito a molti tradimenti, attorno a me, amicizie finite nel secchio della spazzatura, per non parlare dei registi che hanno poca fiducia negli attori e delle veline che arrivano all’attacco. Non dico che in Francia non ci siano le lobby, ma almeno il cinema francese è più grande e vario. E poi credo che lavorare all’estero ti permetta anche di contribuire meglio al tuo cinema.

Quest’anno, in Francia, lei è passata da un’opera prima a un film in costume con un grande budget.
Sì, in Francia è appena uscito Les femmes de l’ombre di Jean-Paul Salomé, dove recito con Sophie Marceau, Marie Gillain e Julie Depardieu, nel ruolo di una ricca ebrea italiana che si unisce ai servizi segreti dell’esercito di Churchill nella speranza di ritrovare la sua famiglia deportata dai nazisti. È un film sulla seconda guerra mondiale vissuta attraverso lo sguardo delle donne combattenti ed è un film di guerra ma per niente cupo, anzi direi leggero. Contemporaneamente ho girato La troisième partie du monde, l’esordio di Eric Forestier, che uscirà a maggio, mentre a luglio sarò sul set con Benoit Jacquot e Isabelle Huppert.

Per fortuna la vedremo di nuovo anche in Italia, nel nuovo film per la tv e per il cinema di Liliana Cavani, che è la biografia di Albert Einstein e di sua moglie Mileva Maric.
Innanzitutto è stata una di quelle rare volte in cui ho sentito che il mio provino contava veramente qualcosa per essere scelta. Poi Liliana è straordinaria e anche la produttrice Claudia Mori lo è. Anche questa storia ha un punto di vista femminile: Mileva è la donna che ha contribuito enormemente alla riuscita di Einstein, è lei che l’ha aiutato a trovare tutte le formule matematiche, perché lui era un teorico puro. Il film parte dal loro ritrovarsi, a 70 anni, e poi va a ritroso, concentrandosi soprattutto sulla scoperta della relatività, ma anche su questo amore dai risvolti drammatici. Albert abbandonò Mileva, lasciandola con due figli di cui uno schizofrenico, e la tradì anche come scienziata: doveva a lei parte del suo successo, ma proprio quando ottenne il riconoscimento pubblico la lasciò e lei smise di dedicarsi alla scienza. 

Si è riconosciuta vedendosi da settantenne?
È stato interessante, tre ore di trucco con Manlio Rocchetti, mi hanno veramente trasformata. Mi immaginavo più o meno così, però mi sono ritrovata più tenera di quanto mi aspettassi.

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16 Aprile 2008

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