Un’idea che Maurizio Nichetti coltivava da più di cinque anni. Tredici mesi di lavoro, dieci settimane di riprese tra la Spagna e Milano e ora, il 23 marzo, Honolulu baby è pronto per arrivare in sala. Ma qualche successo questo film prodotto da Silvio Sardi per Cidif e Rai Cinema, l’ha già ottenuto, visto che finora è stato venduto in Francia, Germania, Australia, Brasile e le trattative per Spagna, Canada e Stati Uniti, sono a buon punto.
Il protagonista è l’ingegner Colombo, come il personaggio di ”Ratataplan”. Che cosa è cambiato in questi vent’anni?
Nel mio primo film Colombo era un giovane che cercava lavoro in una multinazionale. Ora quel posto ce l’ha, ma continua a essere un precario che rischia di essere licenziato in ogni momento, che combatte con le regole del mercato globale e il mobbing.
C’è un messaggio dietro questi cambiamenti?
Se avessi avuto un messaggio da dare avrei mandato un telegramma, non avrei fatto un film. In realtà l’idea è quella di dare un’immagine positiva e allegra dei rapporti tra uomini e donne.
L’ingegner Colombo finisce in un paesino sperduto in cui è l’unico uomo, coccolato e riverito da decine di donne, non è un soggetto un po’ pericoloso?
Assolutamente sì. La cosa di cui avevo paura era di fare un film maschilista, in cui realizzavo la fantasia più banale per tutti gli uomini, cioè quella dell’harem. In realtà questa comunità di donne sole non sente la mancanza degli uomini, ma dei figli.
Nel cast ci sono attori francesi, portoghesi e spagnoli e la sceneggiatura è infarcita di battute nelle lingue di mezza Europa, non hai avuto paura che il pubblico potesse non capire tutto
Un po’ sì, per questo sono stato molto attento nella sceneggiatura e ho usato qualche trucco perché tutto fosse chiaro. Vent’anni fa non mi sarei potuto permettere un rischio del genere, ma oggi è diverso, viviamo in un mondo in cui la commistione tra le lingue è un dato di fatto con cui conviviamo tutti. E poi nel film non uso più di cinquanta parole.
Questo film è il primo, in Europa, ad essere trattato in digitale dalla prima all’ultima scena. Come mai questa scelta?
Le nuove tecnologie non sono soltanto un fatto tecnico, sono un modo per dare più spazio alla creatività. Il metodo che abbiamo seguito è stato quello di girare in 35 millimetri e poi di riversare tutto in digitale. Soltanto dopo tutto viene riportato ancora una volta in pellicola. In pratica questo vuol dire che tutto si può cambiare e modificare e che non ci sono limiti pratici alla fantasia. Ma si tratta ancora di tecniche sperimentali, tanto è vero che spesso mancano i supporti informatici adeguati.
Una scelta che fa lievitare i costi di produzione?
Meno di quanto si pensi. La postproduzione ci è costata un miliardo e mezzo, che su un budget di otto miliardi non è una follia.
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