TORINO. Insegnante delle medie superiori e insieme regista, Maura Delpero torna nella sezione Italiana.Doc, che quattro anni fa le aveva regalato il Premio Avanti! e il Premio Ucca per Signori Professori, con una storia tutta al femminile. Nadea e Sveta è un film sulla maternità, sulla lontananza dal paese d’origine, sulla ricerca della propria “casa”. Come altre donne moldave, Nadea e Sveta sono emigrate in Italia per ragioni economiche, vivono e lavorano a Bologna, mentre le loro famiglie sono rimaste in Moldavia. Nadea ha lasciato figli ormai grandi, mentre Sveta ha affidato la sua bimba di tre anni alla madre. La rivede dopo due anni e mezzo di lontananza quando, ottenuto il permesso di soggiorno, può tornare in Moldavia. Alla partenza dell’amica, Nadea rimane sola e cerca di reagire alla solitudine. I loro destini s’incroceranno fino ad invertirsi.
E’ un film di sguardo, di relazione e di interiorità, avverte la regista, che ha richiesto molto lavoro in fase di scrittura. La sceneggiatura è stata più volte rivista durante le riprese, perché alcune ipotesi narrative sono state smentite dal corso degli eventi. Così il ritorno di Sveta in Moldavia che era stato immaginato come gioioso, si rivela invece come fonte di depressione per la donna. Il soggetto di Nadea e Sveta ha ottenuto nel 2010 la menzione della giuria del Premi Solinas-Documentario per il cinema.
Come nasce questo film?
L’idea originaria risale a parecchi anni fa, quando facevo parte di un’associazione che s’occupava di insegnare l’italiano ai migranti. Sono venuta in contatto con numerose donne dell’Europa dell’Est. Nadea e Sveta erano mie allieve ed è allora che sono emerse le loro storie, le loro esistenze. Queste donne curano spesso i nostri anziani, pur avendo nel loro paese familiari anziani a cui badare. Sono parte integrante della vita degli italiani, sono il nostro welfare.
La spontaneità del film presuppone che abbia instaurato un rapporto intimo con loro.
Prima delle riprese ho creato una relazione lunga che ha significato anche frequentare per tanto tempo le chiese ortodosse e le sale da ballo. Del resto non puoi girare un film come questo rimanendo distaccata. Devi entrare, far parte della loro vita. E poi c’è stata una forte empatia dovuta anche a un periodo duro che ho vissuto a causa di mie vicende personali . E mi sono sentita vicina a queste donne che mostravano, nonostante la loro non facile esistenza, forza e determinazione. Donne poco altisonanti, anche se le loro storie sono eroiche.
Che cosa l’ha spinta a girare questo documentario?
Sono sempre stata sensibile al tema delle nostalgia e degli affetti sospesi, come nel caso di queste donne che partono da sole e lasciano i loro cari, i loro figli. Sveta per più di due anni non vede la piccola Eloisa. Non riuscivo a darmi risposte di fronte a queste scelte, volevo conoscere più in profondità Nadea e Sveta che avevo frequentato come insegnante. E’ anche un film sulla ricerca della ‘casa’, di un luogo protetto, dove stare a proprio agio. Non a caso l’ultima sequenza è girata tra le pareti domestiche, e anche il poster del film richiama un interno.
Perché lasciano la Moldavia?
Secondo l’Onu è il paese più povero dell’Europa, tuttavia gli abitanti non emigrano per fame. Piuttosto, come mi ha rivelato Sveta, per cercare di dare un futuro, un’opportunità ai figli, e così scoprire il loro talento. Così la questione di un futuro migliore è una risposta possibile a chi si chieda se sia un investimento giusto non vedere per due anni e mezzo la propria figlia.
Perché ha scelto Nadea e Sveta?
Scelgo i miei personaggi a pelle, così è avvenuto per Nadea, che ha un’aura. Nei confronti di Sveta ho provato una forte solidarietà per la sua storia personale.
Le presenze maschili sono rare e comunque di puro contorno.
Un’assenza che fa rumore. Ho incontrato donne che migrano da sole, lavorano tantissimo e contano sulle proprie forze e non sulla presenza degli uomini, di cui parlano poco. Ma ho preferito non raccontare questa assenza, perché avrei caricato il documentario.
Il film accenna appena al rapporto con gli uomini italiani.
Non sono libere le relazioni amorose che hanno con i maschi italiani, che di solito nascondono qualcosa o se ne approfittano della loro vulnerabilità. Così Sveta e Nadea sono disincantate e un po’ ciniche, la prima di più, l’altra di meno. Nadea cerca un grande amore, ma è molto esigente e non lo trova.
Il suo linguaggio prevede spesso l’uso della camera fissa.
Mi piace esteticamente, anche quando è usata nei film di finzione, e in un documentario rappresenta una grande opportunità. E’ stata decisiva nella sequenza della cena a tavola, con i capricci della bambina, e restituisce lo stato delle relazioni tra figlia, madre e nonna. E ancora di più nella scena del risveglio di Eloisa e della madre nello stesso letto, dopo una lunga separazione. Una scena che avevo immaginato, pensando quanto fosse penoso per una madre rinunciare per tanto tempo a quella intimità fisica.
Come chiamerebbe il suo cinema?
Il mio è un cinema del reale che crea una struttura narrativa nella quale contenere lo spettatore. Ecco spiegati quei tempi lunghi che consentono di cogliere dettagli importanti della realtà. Del resto mi imbatto con racconti che per la loro stessa natura non possono che essere narrati.
Perché la canzone moldava finale non è stata tradotta?
E’ una canzone popolare delle campagne. La sua potenza non sta nelle parole che sono semplici, perciò non ho voluto i sottotitoli, ma per come viene cantata, stando tutti insieme a pranzo, seduti intorno al tavolo.
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