“Gli americani dicono che la violenza è un opzione nella società, ma in questa storia era una necessità”. Martin Scorsese parla di Gangs of New York, saga storica tratta dalla libro cronaca di Herbert Asbury sugli anni della Guerra Civile Americana, l’altra faccia della “nascita di una nazione”. Insieme al regista italo americano, questa mattina in Campidoglio nella sala della Protomoteca, erano presenti il sindaco di Roma Walter Veltroni, gli attori Leonardo DiCaprio e Daniel Day Lewis, e lo scenografo Dante Ferretti. Il film, che vede contrapposte sullo sfondo di una New York ancora in fase di definizione la gang degli immigrati irlandesi contro quella dei “nativi” americani, ha subìto il divieto ai minori di diciotto anni sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. “Eravamo coscienti del fatto che il film sarebbe stato visto solo da una fetta di pubblico – continua Scorsese – Ho sempre realizzato film violenti, ma ciò che mi interessa non è la violenza in sé bensì le sue implicazioni”. In Italia Gangs of New York esce il 24 gennaio prossimo in 500 copie.
Nel suo film la democrazia e la politica nascono dalla violenza e dai conflitti.
La democrazia si costruisce ogni giorno. Si tratta di un processo lento e faticoso. Durante la guerra fredda, io e la mia famiglia aspettavamo da un momento all’altro di essere bombardati, per fortuna non è accaduto. Andando a raccogliere dati per Gangs of New York ho scoperto dell’attacco a St. Patrick e l’ho rappresentato nel film. Ma direi, al contrario, che ciò che mi ha spinto a inseguire e lavorare su questo progetto per quasi trent’anni è proprio il rispetto per la vita e per i diritti umani. Gangs of New York è un film sulla natura umana: è significativo che questi aspetti della storia americana non siano mai stati raccontati nelle nostre scuole mentre il cinema se n’è occupato in film come Nascita di una nazione di Griffith.
Oggi rischiamo di vivere un processo storico simile…
Sono contento che il film esca proprio ora: sarà utile a capire. Avevo tre anni quando c’è stata la seconda guerra mondiale ma ricordo il Vietnam. Bisogna ricorrere il più possibile al dialogo e alle soluzioni diplomatiche. Spero che non ci sia la guerra contro l’Iraq.
Per girare le scene di violenza si è ispirato a qualche film in particolare?
Ho pensato ai film sugli anni ‘20, al Gattopardo di Visconti, a C’era una volta in America di Sergio Leone. Gangs of New York si nutre della grande tradizione e della storia del cinema italiano. E’ difficile esprimere a parole quanto sia importante per me il vostro cinema, l’impatto e il valore che io gli attribuisco ogni volta che realizzo un film.
Lei ha girato negli studi di Cinecittà con ambienti ricostruiti da Dante Ferretti e 500 addetti ai lavori romani.
La bravura delle maestranze italiane è incalcolabile. Cinecittà è un posto magico dove il cinema acquista una sua dimensione speciale: è stato un onore per me poter girare lì dentro. Coppola ha realizzato Il padrino II negli studi romani, ora Mel Gibson gira Passion: credo che il futuro di Cinecittà sarà sempre più prospero.
Verso la fine del film si vedono le due torri ancora in piedi.
Era scritto nella sceneggiatura. Dopo l’11 settembre ho pensato di dover lasciare quelle immagini, la nostra memoria. C’è una frase di Amsterdam (Leonardo Di Caprio, ndr.) alla fine del film: “le persone che vivranno dopo di noi non sapranno mai che noi siamo stati qui e abbiamo fatto tutto questo”.
Il cinema mondiale in questo momento sta vivendo una fase di passaggio. Cosa pensa in proposito?
Negli Stati Uniti è in atto una polarizzazione del prodotto cinematografico: da una parte ci sono i grandi blockbuster che un volta visti possono essere subito dimenticati, dall’altra ci sono persone, penso a Wes Anderson (Rushmore, The Royal Tenenbaums, ndr) e Steven Soderbergh (Solaris, Traffic), che lavorano su una base personale anche con piccoli budget. L’avvento del digitale sta creando alcune controversie: Lucas dice che siamo passati all’era digitale, qualcun altro dice il cinema con questo nuovo mezzo sta morendo. Io preferisco la pellicola ma trovo che non ci sia nulla di strano in questo nuovo strumento, anzi qualche volta facilita le riprese. Alcuni attori hanno bisogno di lavorare con il digitale perché permette loro di non avere troupe attorno.
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