CANNES – In concorso oggi c’è Mal de pierres di Nicole Garcia, mélo con Marion Cotillard tratto da un romanzo della sarda Milena Agus, con il setting spostato al Sud della Francia. Il ‘mal di pietra’ del titolo sono i calcoli renali, che diventano però qui metafora di una condizione di vita disagiata della protagonista, Gabrielle, costretta dalla vita e dalla società (siamo negli anni ’50) a un matrimonio che non la appassiona, come in una versione moderna (ma più romantica) di ‘Madame Bovary’.
Ricoverata suo malgrado in clinica, intreccerà una storia d’amore clandestina con un altro paziente (Louis Garrel), che la porterà sull’orlo della follia. “Il personaggio mi ha toccato moltissimo – dice la regista – il suo rapporto con il corpo e con il desiderio, sviluppa una vera mistica dell’amore e dei sentimenti. Non è una storia derivativa. Non è una donna che si innamora di qualcuno che non la vuole. Il rapporto in questo caso c’è, i due si vedono, si incontrano. Ma amo moltissimo anche gli uomini, di questa storia. Sono pudici, coraggiosi e silenziosi”.
Cotillard è stata molto corteggiata dalla regista prima di prendere parte alle riprese: “Avevo molti impegni ma volevo dedicarmici bene, è un adattamento piuttosto complesso – spiega l’attrice – avevo bisogno di tempo. All’epoca del nostro primo incontro non avevo letto il libro, ho cominciato direttamente con la sceneggiatura, ma non ero convinta. Ci sono molte scene esplicite, inoltre Gabrielle soffre tantissimo per diversi motivi che scoprirete nel film, io che somatizzo tantissimo ero scettica sull’accettare. Poi però mi sono innamorata della storia, anche se mi sono presa un anno di riposo Nicole mi ha aspettato. In seguito ho riflettuto: sono attirata da tutto ciò che non ho esplorato. Gabrielle è una donna che si trova nella condizione di dover rispettare il suo desiderio e la sua passione, anche se la porta ai limiti dell’oblio. E’ un’esasperazione della grandezza dell’amore e anche di un certo istinto animalesco. Quando si inizia a lavorare a un film è come essere innamorati. Non vorresti pensarci ma ci pensi comunque tutto il giorno, non ho un vero e proprio metodo di preparazione, ogni film e ogni regista sono una storia a sé. Ci sono quelli con cui si parla moltissimo prima delle riprese, quelli con cui si va direttamente sul campo. Ci si informa e ci si chiede anche del passato dei personaggi, cosa hanno fatto da bambini, nel momento in cui erano ancora innocenti, anche se il film non ne parlerà. Tutte le informazioni sono utili a raggiungere il cuore della storia. Gabrielle non ama realmente il suo uomo, lo sfrutta per uscire dalla sua condizione, e la clinica a sua volta è un modo per fuggire da lui, ma solo alla fine scopre quanto lui veramente l’abbia amata e quanto sia stato generoso e quanto ha fatto veramente per lei. Alla fine, è una storia di anime perdute che si incontrano”.
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Alla fine Valeria Golino lo dice chiaramente. "C'è stata unanimità? Quasi". E aggiunge: "Ci sono state lunghe discussioni, ma nessuna decisione è stata presa coi musi", e definisce l'esperienza appena conclusa "faticosa e memorabile". A caldo è abbastanza evidente che la giuria di George Miller ha dovuto fare un bel po' di compromessi. Due particolari rivelatori. Il doppio premio a The Salesman, il bel film di Asghar Farhadi che forse avrebbe meritato la Palma d'oro, e il premio per la regia ex aequo. I premi
E’ Ken Loach con I, Daniel Blake il re del palmarès di Cannes 2016. Seconda Palma a dieci anni di distanza per il regista britannico, che aveva già conquistato il premio con Il vento che accarezza l'erba. “Cercate di restare forti, per favore. Ci sono persone che faticano a trovare il cibo nel quinto paese più ricco del mondo – ha detto il regista alla premiazione – il cinema serva anche a dare speranza. Un altro mondo è possibile e necessario”. Fanno colore le copiose lacrime di Xavier Dolan e l'esuberanza di Houda Benyamina, vincitrice della Camera d'or. I premi