Taxi to the Dark Side, il documentario che ha strappato l’Oscar a Sicko di Michael Moore, è una scoperta del Tribeca di Bob De Niro. Ed è proprio al Tribeca che Mario Sesti l’ha notato selezionandolo per Extra, la sezione della Festa di Roma che nel giro di un paio d’anni è diventata un punto di riferimento per gli appassionati della non fiction in Italia. A Extra era passato anche un altro documentario candidato, War/ Dance, che aveva invece debuttato al Sundance di Robert Redford, prestigiosa fucina di cinema indipendente e innovativo, prima di approdare a Roma. A Sesti abbiamo chiesto una riflessione su questo genere, sempre più “esploso” e distante dai canoni del vecchio cinema verità, ma anche sempre più richiesto da un pubblico che ha fame di cose inedite e di emozioni che possano competere con la “realtà” televisiva. Tra i segni di questa straordinaria vitalità la notizia che un premio tradizionalmente riservato agli sceneggiatori come il Solinas abbia da quest’anno deciso di attribuire anche alla scrittura di documentari per la sala un riconoscimento (con due borse di 5.000 € ciascuna).
Quanto conta il circuito dei festival nella vita di un documentario?
Diciamo che ha ormai sostituito il cinema d’essai e il circuito universitario, che per lungo tempo ha proiettato tutto il cinema d’autore. Registi come Arthur Penn e Milos Forman hanno confessato più volte di aver visto i film della loro vita alle proiezioni nei campus.
Come influisce sulla vita commerciale di un film la programmazione in un grande festival popolare come Roma?
Io credo che influisca positivamente. La Sony Pictures con Across the Universe ha incassato il doppio in Italia che in altri paesi, Into the Wild e Leoni per agnelli sono andati meglio da noi che altrove e anche il film di Franco Battiato, Niente è come sembra, che ha scelto di uscire solo in dvd, ha venduto circa 70mila copie. Battiato ci ha detto che Roma, a differenza di altri festival a cui aveva partecipato con i suoi film precedenti, lo ha favorito. Il cinema italiano in altri contesti viene impallinato, mentre a Roma c’è una visione magari più ingenua, ma meno ristretta a un gruppo di specialisti.
Il dvd è diventato il naturale sbocco del documentario d’autore.
È un nuovo mercato molto ricettivo. My Architect di Nathaniel Kahn, candidato all’Oscar nel 2004, era uscito in sala per pochi giorni con Mikado, passando inosservato, mentre in dvd ha venduto 40mila copie con Feltrinelli. Il documentario è un prodotto ormai assimilato al libro e non è praticamente esposto alla concorrenza della pirateria perché ritenuto poco appetibile dai contraffattori.
Qual è stata la sorte dei documentari italiani presentati nel 2007 in Extra?
Quello di Guido Chiesa, Le pere di Adamo, è ancora in cerca di distribuzione, mentre gli altri sono stati tutti comprati dalle tv, che in qualche caso li avevano finanziati. Penso ai filmati su Sofia Loren, Marco Ferreri e Totò. Infine Parole sante di Ascanio Celestini è uscito in sala con la Fandango.
Tornando all’Oscar, che tipo di film è “Taxi to the Dark Side”?
È la storia dell’omicidio di Dilawar, un tassista afgano, morto nella base militare americana di Bagram, dopo essere stato arrestato e sottoposto a interrogatori e torture, nonostante fosse innocente. Proprio da questo caso sono nate alcune procedure che hanno portato agli abusi di Abu Ghraib. L’autore, Alex Gibney, nominato all’Oscar per il miglior documentario già nel 2006 con Enron: The Smartest Guys in the Room, è regista, sceneggiatore, produttore e voce narrante di questo film che usa elementi tipici del thiller nella fotografia, nel montaggio, nell’atmosfera che crea. Come nel film su Abu Ghraib di Errol Morris, che abbiamo appena visto a Berlino, qui il documentario si avvicina molto al film di finzione. In alcuni momenti sembra veramente un thriller di David Fincher.
Verità e finzione, magari anche invenzione, sono sempre più intrecciate, a volte inestricabilmente, come nei documentari, giudicati da alcuni controversi, di Michael Moore.
Nessuno si aspetta più la verità come negli anni ’70 e ormai abbiamo la consapevolezza che il linguaggio della finzione può essere al servizio della verità. Così quando Errol Morris mostra un super8 delle torture non capisci più se è vero o se l’ha girato lui.
Il documentario sta vivendo dunque una mutazione.
È un genere che si sta irrobustendo attraverso la contaminazione con altri generi e questo è sicuramente un segno di forza. Quando Guerre stellari, alla fine degli anni ’70, impose la fantascienza a livello mondiale, lo fece a spese del western.
Succede anche con gli italiani?
Sì e vorrei citare qualche titolo di una linea che porta avanti una ricerca simile in qualche modo alla poesia: Il passaggio della linea di Pietro Marcello, il film di Guido Chiesa, quello di Celestini e quello Battiato, che non è un documentario ma piuttosto un diario su temi come la filosofia e la religione, infine i lavori di Alina Marazzi. Un’ora sola ti vorrei è un vero romanzo con materiali di repertorio bellissimi e capaci di liberare grandi emozioni.
È vero anche il contrario: il cinema di finzione fa sempre più spesso finta di essere documentario.
È proprio così: ad esempio i tre più bei horror che ho visto recentemente – Rec, Diary of the Dead e Cloverfield – sono finti diari.
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