VENEZIA. Con il suo Noi credevamo, opera antiretorica, drammatica e problematica sul nostro Risorgimento, Mario Martone, applaudito lungamente alla conferenza stampa, probabilmente si candida a un premio importante di Venezia 67. Nato sull’onda dell’emozione per l’attentato dell’11 settembre pensando al rapporto tra terrorismo e lotta per l’indipendenza nazionale, il fluviale film ci mostra il lato meno studiato e narrato del nostro Risorgimento, le sue pagine oscure, con i conflitti insiti nel lungo cammino verso l’Unità d’Italia: tra ‘i padri della patria’, tra Nord e Sud, tra aristocratici e popolo, tra monarchici e repubblicani.
Un viaggio che si svolge in quattro tappe con protagonisti tre giovani del Sud che si confronteranno ciascuno con l’idealità, la violenza, il sacrificio, il carcere, la clandestinità e la disillusione politica. Alla fine come afferma la principessa Cristina di Belgioso, “L’albero viene piantato anche se con radici malate”. L’unità è fatta, ma a quale prezzo. Una cosa è chiara per Martone i mali odierni del nostro Paese affondano in quel tormentato e drammatico processo storico.
La sceneggiatura, scritta dal regista e da Giancarlo De Cataldo, è liberamente ispirata alle vicende storiche realmente accadute e al romanzo “Noi credevamo” di Anna Banti. Il film prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti in collaborazione con Feltrinelli, e insieme a Rai Cinema e Rai Fiction, ha avuto un contributo del MiBAC e il sostegno del Comitato Italia 150 e della Film Commission Torino Piemontee. Dopo l’uscita in sala a novembre è previsto anche il passaggio in televisione.
Costato tra i 6 e 7 milioni e girato in 15 settimane, ha un cast formato tra gli altri da: Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Michele Riondino, Andrea Renzi, Ivan Franek, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Anna Bonaiuto, Fiona Shaw, Luca Barbareschi e Reanto Carpentieri. Le musiche di Rossini, Verdi e Bellini sono eseguite dall’orchestra sinfonica della Rai di Torino diretta da Roberto Abbado.
E’ un film il suo che rimanda più che mai all’oggi.
E’ il presente che mi ha spinto a fare questo film che poi è stato condotto rigorosamente sul profilo storico, nel senso che non ho voluto strizzare l’occhio all’attualità o cercare delle forzature. Tutte le parole che vengono pronunciate dai personaggi storici sono parole che derivano dai loro scritti e lettere, quindi è un’opera rigorosamente documentata. Al tempo stesso il rapporto con l’oggi è molto forte, quello che per me conta è che sia lo spettatore a compiere questo lavoro.
Nel finale ascoltiamo le parole di Angelo/Lo Cascio sull’Italia “gretta, superba e assassina” che ha davanti a lui.
Sono parole che concludono il romanzo di Anna Banti. Si riferiscono all’Italia subito dopo l’Aspromonte, ma quest’Italia ha continuato a esistere negli anni successivi sino ai giorni nostri. Per fortuna ha continuato a persistere un’Italia democratica che a quella si è opposta. Questo scontro ha origine nel nostro Risorgimento e attraversa tutta la storia italiana successiva. Non è uno scontro tra destra e sinistra, ma tra due anime antropologiche del Paese: autoritarismo e democrazia, declinabili in modi diversi. Nel film differenti sono i contesti in cui si svolge questa dialettica, per esempio all’interno del carcere. Esiste in Italia una spinta autoritaria, un rapporto tra le paure profonde del nostro Paese e la necessità di affidarsi a una forza che dall’alto, illudendosi, ci guidi in maniera forte e che in realtà ha prodotto in 150 anni molte tragedie.
Nel film ha voluto un riferimento alla Costituzione della Repubblica romana.
Non si vedono nel film scene di quell’evento storico, ma l’ho citata perché costituisce l’episodio chiave del Risorgimento messo in sordina e poco celebrato in un’Italia dove risiede il Papa. In quei nove mesi si è lavorato a una delle Costituzioni più avanzate d’Europa – suffragio universale, assegnazione delle terre ai contadini – nasceva un’Italia repubblicana repressa dalla Francia e abbiamo dovuto aspettare cent’anni.
Ha avuto difficoltà a mantenere la scelta di una lingua derivata dall’800?
I dialoghi peraltro lunghi spaventavano i produttori, ma io non ho ceduto. Essi derivano da testi originali, gli attori si sono così confrontati con una lingua obsoleta, dell’800. Gli interpreti hanno accettato questa sfida di rendere viva quella lingua, evitando di far parlare i loro personaggi dell’800 come se fossero dei giovani d’oggi, ma puntando a far comprendere il rapporto tra quel passato e il nostro presente. Gli attori sono stati i miei grandi alleati in questa sfida. Ho chiesto loro una recitazione antinaturalistica, in qualche modo teatrale, e che fosse in rapporto con la musica.
Nel film compaiono più volte elementi scenografici del presente.
Ho cercato di ricreare un ‘800 diverso da quello che siamo abituati a vedere. Se c’è una diversa visione storiografica, ci deve essere una differente visione iconografica. Non l’800 derivato dall’impostazione viscontiana che fa da matrice per tutto l’800 cinematografico. Da una parte massimo rigore e esattezza dei luoghi, come per il processo alla banda Orsini nel carcere di Montefusco. Dall’altra parte era importante segnalare che non stavamo ricostruendo , ma cercavamo una reviviscenza nell’oggi. Sin dall’inizio si vedono cemento armato, fili elettrici disseminati in maniera più misteriosa. Dopo di che ci sono tre scene in cui ciò avviene in modo forte: il garage in cui Crispi riceve la bomba da Orsini; il carcere di Saluzzo dove vengono ghigliottinati Orsini e Angelo che è stato carcere di massima sicurezza fino agli anni ’70 ospitando i brigatisti; la struttura di cemento armato, il non finito che ben conosciamo sulle coste del nostro Sud, che sarà l’Italia futura, dove dormono Domenico e Saverio nel loro viaggio verso Garibaldi.
E’ raro vedere in un film sulla storia italiana il ruolo importante svolto dalla donne.
Noni credevamo non poteva essere, come è, una storia maschile, è una grande immersione maschile. Eppure il personaggio femminile protagonista del film non volevo che fosse una moglie, una madre, un sorella ma una donna con una sua posizione politica, con una dialettica, peraltro vincente, con gli altri personaggi . Cristina di Belgioioso è una figura straordinaria del Risorgimento, misconosciuta. E’ stato importante lavorare sui suoi scritti, lasciando la lingua originale, chiedendo a Francesca Inaudi di renderli vivi, senza perdere nulla della sua statura politica.
Chi ha voluto rappresentare con il personaggio pessimista che nel capitolo finale vediamo sulla carrozza mentre porta con sé un cardellino?
L’uccellino rimanda a Anna Maria Ortese e al suo romanzo “Il cardillo innamorato”, una scrittrice con una visione se non anti-illuminista pre-illuminista. L’uomo rappresenta l’unica figura non rivoluzionaria: non crede che il mondo possa essere rifatto, ed è meglio per lui vivere in una dimensione contemplativa della natura e del tempo. Direi che è una via indiana di accoglimento dei dolori della vita e del mondo.
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