A sei anni dall’ultimo suo film Teatro di guerra presentato al Festival di Cannes, Mario Martone lascia Napoli e le sue atmosfere per misurarsi con un romanzo di Goffredo Parise, scrittore del profondo Nord, ma anche giornalista, sceneggiatore e reporter. L’odore del sangue, liberamente tratto dal libro omonimo, è un dramma intenso e forte, che rimanda a un’impostazione teatrale. La vicenda ruota intorno al disordine dei sentimenti e dell’eros di un uomo ormai maturo, Carlo, diviso tra l’amore forse consumato dal tempo per Silvia e la passione rigeneratrice per la giovane Lù. Martone ha voluto accanto a sé un cast essenziale e con solide esperienze teatrali alle spalle: linquieta Fanny Ardant, il rabbioso Michele Placido e il volto nuovo di Giovanna Giuliani. Il film è una coproduzione italo-francese BiancaFilm, Mikado e Arcapix, distribuito da Mikado.
Come è avvenuta la scoperta di questo romanzo?
L’ho letto per la prima volta nel ’97, quando uscì postumo, e nonostante fosse ambientato e scritto negli anni ’70, sprigionava la forza di uno scrittore contemporaneo. Mi colpì, ma non pensai a un film. Scrivevo appunti e allinizio era un laboratorio personale, una terapia, come lo era stato per Parise il romanzo.
Cosa l’ha colpita del romanzo?
La parola è il vero scandalo del libro. La scrittura di Parise è cristallina, con parole semplici rende limpida una materia oscura e profonda. Non c’è differenza tra scrivere di sentimenti o di sesso per Parise, le parole sono infatti reali e concrete. Ho cercato con la fotografia di restituire quella limpidezza, grazie a immagini luminose, a una fotografia che non creasse il buio per il buio o il mistero per il mistero.
Il film è liberamente tratto, in che senso?
Guarda moltissimo al romanzo, ma più che prendere spunto, cerca un corpo a corpo. Abbiamo trasformato Paloma l’amante di Filippo, cioè Carlo nel film, in un personaggio diverso, Lù. Se Paloma è una ragazza di campagna, ignara di tutto, oggetto del desiderio delluomo, Lù è consapevole del labirinto in cui la trascina Carlo, rappresenta la purezza. Ho cercato invece d’interiorizzare il clima degli anni ’70, inserendo brani dei reportage di Parise che danno l’idea della contemplazione sul disordine del mondo.
Carlo è colpevole di quel che accade?
Sì e nel libro, a differenza del film, questo è esplicitato. Ma la colpa s’intreccia con il destino e ciò fa la statura tragica del romanzo. Quante volte io e Fanny Ardant ci siamo detti: questa è una tragedia greca. C’è il destino che piomba con l’arrivo di questo ragazzo, amante di Silvia, che non appare mai, così come nel libro è presente solo nella descrizione che ne fa Silvia oppure nelle ossessioni e visioni di lui.
E il sesso?
Il mistero, il buio, certo non qualcosa che si cataloga sociologicamente. Se ne può parlare, sapendo che ne se parla per manifestare il suo lato oscuro, ma non per spiegarlo. Questo è ciò che fa Parise, che vive la sessualità con assolutezza acattolica.
Come ha scelto Placido e l’Ardant?
Per Michele sono stati decisivi il fatto che, come Parise, non è borghese e ha dietro terra e radici, nel suo caso la Lucania. E inoltre la sua esperienza di regista conta sul piano lavorativo. Fanny aveva incontrato il romanzo e ne aveva acquisito i diritti indipendentemente da me.
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