TORINO – Terzo italiano in concorso al Torino Film Festival, Noi non siamo come James Bond, ha un netto sapore wendersiano per l’intreccio di vita vissuta e vita filmata, entrambe fino allo spasimo, ma con leggerezza e autoironia: la malattia mortale e la fine dell’illusione di immortalità raccontata da due cinquantenni in smoking e piedi scalzi che trent’anni prima sognavano 007 durante un viaggio in Islanda e ora hanno valicato il crinale di una malattia gravissima, che poteva essere senza ritorno. Si parte dalla domanda “perché ci siamo ammalati?” e si arriva al “perché siamo guariti?”. Prodotto da Gianfilippo Pedote, acquistato da Rai Cinema, con la giusta voglia di uscire in sala, il film, realizzato da Mario Balsamo e Guido Gabrielli, avrà anche una serata per la ricerca sul cancro con Totti e Verdone come testimonial. Del docudrama Verdone è entusiasta, tanto da aver detto: “è un insegnamento su come affrontare il passaggio di una grande avversità”. Ne parliamo con Balsamo, documentarista, autore, tra gli altri, di Sognavo le nuvole colorate.
Come avete fatto a coinvolgere Verdone?
E’ stata un’idea di Guido. Pensava che il nostro film potesse piacergli per la chiave surreale e gli abbiamo mandato una mail a cui ha risposto. Stava lavorando con Paolo Sorrentino come attore, ma quando l’ha finalmente visto, mi ha scritto una email toccante, commovente, con parole semplici, dirette e spontanee. Ha trovato poesia nel nostro lavoro e ci ha rivelato, in un videomessaggio, la sua fede che l’anima sopravviva al corpo. Mi è venuta anche la voglia di dedicare una serie di documentari a questi temi – la malattia, la morte – affrontati da persone popolari.
Il progetto vi ha portato a elaborare non solo la malattia, ma il vostro rapporto con il tempo, con le aspettative e le illusioni, mettendovi in scena con coraggio ma anche con un quantum di narcisismo.
All’inizio volevo raccontare la malattia parlando di cardiopatici gravi, ma mi sono accorto che, essendo uscito dall’esperienza del cancro, sovrapponevo troppo quello che io stesso pensavo. Il mio cinema, del resto, è sempre una danza tra l’autore e il testimone. Così ho proposto all’amico di sempre Guido, guarito dalla leucemia, di farlo insieme, col tacito accordo che non ci sarebbe stata retorica né lacrime. Insomma, volevamo parlare delle possibilità che una malattia ti offre, come succede in La guerre est declaré, di Valérie Donzelli, che ho visto dopo e che mi ha impressionato perché sia apre con la stessa scena iniziale, quella di una tac.
Un altro modello, evidentemente, è l’episodio “Medici” di “Caro diario”.
Moretti ha reso possibile parlare della propria malattia e mettersi in gioco quando si è malati. Una malattia grave dà la sensazione che la tua vita sia in frammenti con i pezzi che volano da tutte le parti, alcuni si spezzano, altri si infilano sotto il tavolo. Ma questo disastro può diventare l’opportunità per comporre un mosaico differente. Ho ritrovato di recente i miei compagni delle elementari e mi ha colpito come tutti mi ricordassero buffo e simpatico mentre io avevo il ricordo di un bambino travagliato, chiuso in se stesso. E’ stata una rivelazione, ma anche la conferma del fatto che i punti di vista, alla Marquez, non sono statici. E poi mettersi in scena soggettivamente vuol dire giocare a carte scoperte col pubblico.
In una scena molto divertente, ma anche amara, c’è sua madre che le legge le carte. E rivela che a lei non aveva parlato della sua malattia.
Con mia madre ho sempre avuto un rapporto di grande conflittualità ma anche di innamoramento reciproco. Allora mi sono chiesto se fosse giusto che una madre ottantenne sapesse di una malattia così grave e non me la sono sentita di dirglielo, ma poi non potevo non coinvolgerla nel film. Un mese fa ho deciso di parlargliene e questo anche grazie al progetto.
Guido, a un certo punto, ha un incidente stradale e chiede di spegnere la macchina da presa. Poi quando scopre che non è stato così, si infuria. E’ una classica irruzione della vita nel cinema.
Era importante che la vita entrasse a gamba tesa nel film, che la finzione si mescolasse con la realtà. Guido, ripreso in quel momento di fragilità, si è sentito tradito e mi ha accusato di sciacallaggio. Questo perché lui pensa che i film siano una cosa e la realtà un’altra, mentre io no.
Il film è contrappuntato dai tentativi di entrare in contatto con Sean Connery, il vostro idolo di ventenni, l’uomo invincibile e seduttivo, oggi alle prese con “un problema medico”…
L’abbiamo inseguito con tante telefonate e alla fine ci ha parlato mostrando, secondo me, una sottile per quanto sbrigativa complicità. Gli manderemo il film, che è dedicato a lui, oltre che alla memoria di mio padre e alla madre di Guido.
Avete capito perché si guarisce?
Non l’abbiamo capito, ma sappiamo che essere in due aiuta. L’amicizia quantomeno ti permette di vivere bene.
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