Si intitola Il cielo rovesciato. Rifrazioni tra reale e immaginario nel cinema di Mario Balsamo, il volume di Fabrizio Croce e Sabina Curti (Bulzoni Editore, pp. 136, € 13). E il cielo – citato anche nel titolo del suo documentario Sotto il cielo di Baghdad, evocato da un altro titolo come Sognavo le nuvole colorate – ricorre nella lettura che i due studiosi danno dell’opera del documentarista di Latina.
“Se dovessimo identificare un Leitmotiv visivo che ci ha guidato nelle nostre conversazioni sul cinema di Mario Balsamo, ce ne sarebbe sicuramente uno, ma sdoppiato: nei suoi film sono infatti presenti in abbondanza le immagini di due elementi naturali, che sovente ritornano e che in qualche modo s’impongono su tutti gli altri: il mare e il cielo”, commentano i due autori.
L’altro elemento, ovviamente, è l’autobiografismo, praticato con sempre maggiore consapevolezza teorica fino ai suoi film più recenti e maturi, Noi non siamo come James Bond e Mia madre fa l’attrice. Non stupisce quindi che Balsamo stia lavorando, tra i suoi vari progetti, proprio a una ‘autobiografia non richiesta’, Voleva essere una vita. Mentre la parola “vita” ricorre in un altro romanzo-film, in attesa di pubblicazione e di riprese, La vita estranea, che potrebbe (e dovrebbe) diventare la sua prima opera di finzione tout court.
Con l’avvertenza che la distinzione tra documentario e finzione gli va decisamente stretta, come sottolinea anche Stefano Rulli nella sua prefazione al libro, dove parla di “cinema di frontiera” tra questi due mondi, mentre Vito Zagarrio, nella postfazione, sintetizza un discorso che riguarda il cinema italiano nel suo complesso: “Parlare di lui è forse l’occasione per affrontare il tema di cosa sia il nuovo documentario italiano, e di come sia diventato uno degli elementi portanti del nuovo cinema italiano”.
Balsamo, come nasce il libro di Fabrizio Croce e Sabina Curti?
Innanzitutto dall’incontro con Croce, giovane critico cinematografico che mi intervistò per la web tv della Uil nell’ambito di una rubrica sul documentario. Aveva visto Sognavo le nuvole colorate e poi i miei ultimi due film, Noi non siamo come James Bond e Mia madre fa l’attrice, rintracciando una chiave esistenziale che gli interessava molto. Pensò a scrivere un saggio che rendesse giustizia al mio cinema, mettendo in gioco anche se stesso in rapporto ad alcuni simboli ricorrenti: la madre, il cielo, il mare. In questo percorso iniziato tre anni, ha incontrato una docente di Sociologia dell’Università di Perugia, Sabina Curti, che avendo visto Mia madre fa l’attrice era stata affascinata dal tema della devianza, l’uscire dagli schemi tradizionali del racconto. Hanno condiviso un dialogo fra loro, per raccontare me, ma anche il loro approccio al cinema.
Quindi un libro con due punti di vista diversi ma complementari.
Sì, una sociologa che indaga gli aspetti autobiografici del lavoro e un critico che si rivede nei miei film. Hanno rintracciato questo Leitmotiv dell’attenzione verso i luoghi simbolici. Il mare rappresenta anche la madre, il principio femminile in cui ci si immerge ma può essere anche letale, il cielo è orizzonte ma anche potenziale fonte di pericolo, come a Baghdad sotto le bombe statunitensi.
Ci sono aspetti critici o ‘dissonanti’ in questo ritratto?
Hanno evidenziato un certo narcisismo che viene stemperato – si spera – dall’autoironia insita nella mia presenza in scena, una presenza che vuole sempre essere funzionale al racconto. In alcuni film la mia ricerca delle immagini viene subordinata alla freschezza della storia, al cogliere la vita in diretta, non c’è una ricerca estetica fine a se stessa.
Nel libro compaiono anche altre voci.
C’è Gianfilippo Pedote, un produttore che ha collaborato spesso con me, che parla del passaggio dalla realtà alla finzione, anche in altri registi di documentario. E c’è lo straordinario montatore Benni Atria, che riflette sul montaggio come condivisione umana col regista che diventa progetto di vita. Lui è coinvolto anche nel mio nuovo progetto, sul coronavirus.
Ce ne può parlare?
Ha un titolo provvisorio C. (Effetti collaterali di un virus) ed è prodotto da AViLab di Federico Massa. E’ un film a sei mani con Benni Atria e Anna Terrassan, nato durante il lockdown. Fin dall’11 marzo sono sceso in strada con la telecamera, anche con Anna, e ho girato una quantità enorme di materiale interessante. Ne abbiamo parlato noi tre costantemente, abbiamo pensato che queste immagini del lockdown fossero una sorta di contagio. Dal punto di vista autoriale rappresentano una riflessione su ciò che abbiamo visto in televisione, la città è deserta ma piena di contrasti, con i cartelloni pubblicitari che parlano di un mondo scomparso, come se appartenesse a un lontano passato anche se sono trascorsi pochi giorni o settimane. Ci sono persone che hanno acquistato improvvisamente visibilità, come i senzatetto, che vivono costantemente nel rischio di qualche contagio. Ci sono le paure delle persone rinchiuse in casa, che spiano dalle finestre i passanti, c’è l’occhio della televisione come evasione attraverso le serie ma anche come informazione costante. Sarà un film speriamo originale su quello che può venire da questa esperienza. Durante il lockdown ho partecipato anche a un progetto collettivo, Sonetti Pandemici Quantunque Lodoliani, ideato e diretto da Francesco Cabras, 24 microfilm con contributi di tanti artisti, tra cui Ascanio Celestini, Sabrina Impacciatore, Giorgio Tirabassi, con il filo conduttore dei testi poetici di Marco Lodoli.
Crede che il nostro rapporto con le immagini e dunque il cinema sia cambiato in modo definitivo dopo questa esperienza?
Faccio due riflessioni. Ci sarà un’attenzione molto maggiore verso il documentario, sia per motivi di budget sia perché qui il distanziamento è più realizzabile. Ma ci sarà anche una nuova irruzione della realtà che sarà reinterpretata portandola ancora più avanti. Cambierà il modo di fare cinema soprattutto per alcuni. Se dovessi fare un parallelismo lo farei con il secondo dopoguerra in Italia: da una parte il neorealismo, dall’altra i film di Hollywood, che facevano evadere ma creavano anche un effetto straniante negli spettatori italiani.
Quindi prevede una accelerazione della polarizzazione già in atto, tra cinema di ricerca e cinema mainstream di effetti speciali e supereroi?
Assolutamente sì. E penso che sia una cosa positiva.
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