Il piccolo Vanja scende di soppiatto da un furgone carico di bambini come lui. Fugge ma l’occhio della cinepresa non lo segue, piuttosto resta lì, tra il rombo del camion e gli sguardi sporchi e persi degli altri piccoli. “Volevo rimanere sul furgone con gli altri bambini, coloro che restano, a differenza di Vanja, in uno stato di coazione psicologica, che non riescono liberarsi del ricatto psichico al quale vengono sottoposti”.
Mario Amura parla di Racconto di guerra, storia di amicizia nata sotto le bombe del conflitto serbo-bosniaco, ma anche piccolo quadro dello sfruttamento che i gruppi paramilitari operarono ai danni dei bambini orfani di guerra. In Racconto di guerra sono usati per saccheggiare gli edifici appena bombardati e i piccoli ladruncoli ottengono così dai “grandi” il permesso di abitare nel vecchio mattatoio. “Un documento stilato dall’Unicef nel 1996 riporta la scomparsa di 5mila bambini nella sola Sarajevo. Questo stesso documento spiega bene come per i bambini l’atrocità della guerra si traduca in una mancanza di punti di riferimento. La morte dei genitori è più dolorosa delle bombe sotto le quali vivono”, racconta Mario Amura, passato alla regia dopo una laurea in diritto internazionale e l’insegnamento “raro quanto prezioso” di Giuseppe Rotunno alla Scuola nazionale di cinema.
Racconto di guerra, già vincitore ex aequo del David di Donatello 2003 (il premio è stato condiviso con Rosso fango di Paolo Ameli), è l’unico corto italiano selezionato per il concorso internazionale di Arcipelago 2003, in programma dal 20 al 26 giugno a Roma.
Da dove trae ispirazione “Racconto di guerra”?
L’idea è nata con la lettura di un fumetto, “Vanja e Vanja” di Danjiel Zezeli, un autore croato che ha lavorato per le edizioni Il Grifo e ora per la Marvel. La storia originaria è ambientata in un mondo apocalittico dove i bambini sono costretti a prendere solo pochi minuti d’aria al giorno. Anche Racconto di guerra rende questa dimensione claustrofobica: Vanja e gli altri conducono un’esistenza da sciacalli, passando da un edificio all’altro attraverso cunicoli e vivendo in sotterranei bui. Vanja e Lara però, incontrandosi, troveranno uno scampolo d’umanità l’uno nell’altro.
Dove e quando avete girato?
Abbiamo effettuato le riprese nel 2002 in 8 giorni. Ho scelto come location l’ex mattatoio di Sarajevo. La città, a differenza di qualche tempo fa, sente l’esigenza di raccontarsi, i suoi abitanti hanno acquisito una diversa consapevolezza su come affrontare la memoria. Così siamo stati accolti da un clima di grande disponibilità. Ho effettuato i sopralluoghi per un mese, selezionando gli edifici. Dopo essere stato a Sarajevo ho riscritto la sceneggiatura. Questo cortometraggio si è rivelato un’esperienza umana unica, per esso hanno lavorato un fumettista croato, il direttore della fotografia Vladan Radovic montenegrino che però ci tiene ad essere definito jugoslavo, il bambino protagonista kosovaro.
La fotografia è giocata per la maggior parte del tempo su colori freddi, salvo l’apparire di tende rosse…
Le usavano i serbi per farsi riconoscere dai cetnici appostati sulle montagne. Erano tende doppie, concepite anche per non lasciar trapelare le ombre di chi viveva negli appartamenti.
Quando si racconta la guerra, si cade facilmente nel retorico o nel sensazionale…
Basta evitare i climax tipici del cinema americano che parla dei conflitti. La guerra è molto spesso noia e desolazione totali, con boati improvvisi nel silenzio. Ho utilizzato la mia consapevolezza drammaturgica al servizio del dolore degli altri, eliminando qualsiasi atteggiamento pietistico. “Le guerre solitamente si fanno per i soldi”, una frase banale che spiega bene la durata del conflitto serbo-bosniaco. Così è successo a Sarajevo: la lunga presenza dell’Unprofor, le cosiddette operazioni di “ricostruzione” hanno in sé un aspetto economico così evidente da annullare qualsiasi discorso di diplomazia internazionale.
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