PALERMO – Uno dei film italiani più discusso delle ultime settimane arriva alle Giornate del Cinema per la Scuola 2024 di Palermo una manciata di ore prima della sua uscita ufficiale nelle sale. Si tratta de Il ragazzo dai pantaloni rosa, il film diretto da Margherita Ferri che racconta la vera storia di Andrea Spezzacatena, considerato la prima persona ad essersi tolta la vita a causa del cyberbullismo. Acclamato dalla critica, il film con Samuele Carrino, Claudia Pandolfi e Corrado Fortuna è stato accompagnato da alcune polemiche che sottolineano i temi delicati che affronta: dal bullismo all’omofobia, passando per la ricerca dell’identità, sessuale e non solo.
Ne abbiamo parlato con la regista, in vista dell’uscita nelle sale prevista per il 7 novembre 2024 distribuito da Eagle Pictures.
Margherita Ferri, che reazione si aspetta dai docenti presenti qui a Palermo, soprattutto dopo quello che è accaduto a Treviso, dove un gruppo di genitori si è opposto alla proiezione del film?
Innanzitutto la scuola di Treviso alla fine ha partecipato alla proiezione, anzi poco fa abbiamo conosciuto la esercente, che è qua a Palermo. Quello che è successo prima della proiezione è frutto di un pregiudizio, avere un giudizio negativo prima di approcciare un film, un’opera. Credo che questo sia sempre sbagliato. In più perché questo è un film che parla ai ragazzi, di un tema vivo e presente. Non aprire un dialogo su questo tema, dicendo no io mi rifiuto di vedere il film, vuol dire perdere in partenza. Perché se non si parla di un problema di certo non scompare.
Prima di Treviso, c’è stata una polemica anche per il comportamento dei ragazzi alla prima proiezione romana. È stato strano vedere gli studenti mettere in pratica le stesse dinamiche disfunzionali di gruppo che venivano denunciate sullo schermo. Ci sono margini per agire su questi comportamenti alla radice?
Io sono una persona positiva, senno non farei quello che faccio. Io credo che questo film abbia un potere di trasformazione, che sicuramente non arriverà a tutti ma che spero arrivi a 5, 10, 100 ragazzi. A Roma ci sono stati schiamazzi, soprattutto nella parte iniziale del film, quella dinamica dei ragazzi che vengono portati in gita e fanno un po’ gli scemi. Ma quando siamo entrati noi abbiamo trovato persone in lacrime, che si scioglievano dagli abbracci, un pubblico emozionato e in ascolto della storia. Quello che mi auguro è che questo succeda nella maggior parte dei casi, magari arrivare a vedere questo film anche prevenuti, con quell’atteggiamento un po’ strafottente che avevano quei ragazzi, però poi essere catturati dalla storia.
Uno degli elementi più riusciti del film e il suo tono agrodolce: come ci avete lavorato?
Ovviamente si parte da un testo che io ho approcciato in un momento iniziale della sceneggiatura. Già c’era questa mancanza di retorica e di pesantezza, che era la cosa più importante che mi ha convinto ad abbracciare il progetto. Il tono poi chiaramente lo dai con la regia. Perché le stesse battute tu le puoi dirigere, inquadrare in infiniti modi diversi e il tono cambia di conseguenza. La sfida più importante è stata quella di essere vitali, come ci ha chiesto la mamma di Andrea. Parlare di vita, quando comunque il finale del film fosse segnato e noi non lo potevamo cambiare, però senza essere superficiale e retorici. Questo per me è fondamentale in tutti i film: mi auguro di fare bei film o brutti film, ma mai retorici. E mai giudicare i personaggi: nessuno viene giudicato per quello che fa, ma viene raccontato. Neanche il bullo, che è chiaramente uno stronzo, è quello che causa il male peggiore a questo ragazzo. Il percorso che abbiamo fatto con l’attore è stato quello di andare ad analizzare le motivazioni di questo personaggio, che è umano. Il male è umano, non viene da un altro pianeta. Non lo abbiamo giustificato, ma lo abbiamo compreso. Andrea mette in discussione la mascolinità di Cristian, l’immagine di ragazzo perfetto, vincente, figo, che lui ha davanti agli altri.
Il personaggio di Andrea è molto interessante perché cade vittima del bullismo in maniera quasi inaspettata, era un ragazzo pieno di qualità: il primo della classe, bravo nello sport, nel canto. Era solo un ragazzo in cerca della sua identità, stava esplorando se stesso.
Andrea, nella vita reale come nel film, è stato vittima di bullismo omofobico a prescindere dal suo orientamento. Perché lui non aveva a quell’età fatto coming out o una chiara idea di quale fosse la sua identità, che come per tutti, è molto complessa. Ho letto delle recensioni che accusano il film di non essere abbastanza coraggioso da questo punto di vista. Come se io potessi fare qualcosa di non abbastanza gay. È una lettura profondamente sbagliata, noi abbiamo voluto rispettare l’identità e la persona di Andrea, che adesso non ha una voce. Raccontare questo ragazzo come sicuramente gay o etero non sarebbe stato fare outing, ma dire una falsità. Lui non ha avuto il tempo di capire la sua identità. L’omofobia che lo ha colpito è stata più forte. Il personaggio è anche molto libero, come lo era anche la madre: non legata a un ruolo tradizionale o stereotipato di madre che si dà completamente alla famiglia e non fa scelte per il proprio benessere. Io l’ho apprezzato tantissimo ed è quello che ho cercato di mettere nel film. Andrea nel film è un ragazzo che è sempre se stesso, ma non ha gli strumenti per difendersi da chi lo accusa di essere diverso.
Vedere attori adolescenti recitare così bene è rarissimo. Come avete lavorato nella fase di casting e poi sul set?
Adoro lavorare con i ragazzi, perché mi ascoltano spesso più di tanti attori più affermati (non quelli di questo film che sono fantastici). La sfida è stata nel fatto che non avevamo tanto tempo, perché l’obbiettivo era uscire per l’inizio dell’anno scolastico. Io ho lavorato qualcuno per i ruoli di Andrea e Cristian, cercando attori che potessero raccontare l’emozione chiave del personaggio. Samuele è un talento, è molto concentrato, molto sensibile e intelligente. Abbiamo fatto un percorso insieme. Ho visto il suo self tape e mi ha colpito molto questa tenerezza che aveva nello sguardo, la sua espressività. Sin dai provini, lui migliorava. Abbiamo fatto tante prove: gli attori adulti si sono messi a completa disposizione, anche degli attori più giovani. Hanno dato consigli, hanno lavorato insieme, abbiamo costruito con grandissima libertà le dinamiche familiari, abbiamo analizzato le motivazioni. Abbiamo lavorato come se fosse uno spettacolo teatrale in modo tale da avere chiaro in ogni momento del film cosa stesse succedendo al personaggio. Per me questo è l’unico modo per lavorare bene. Per me creare il personaggio prima di andare sul set è fondamentale, poi sul set vai sul palco e facciamo la nostra performance di regia e recitazione. Lo studio va fatto, poi la magia accade, ma se non l’hai preparata è difficile che accada.
Tra Zen sul ghiaccio sottile e Il ragazzo dai pantaloni rosa c’è una chiara continuità a livello contenutistico. Su cos’altro sta lavorando per il futuro?
In questo difficile mondo del cinema, ci ho messo sei anni a fare l’opera seconda. In questo lasso di tempo ho scritto altri film, che hanno tutti protagonisti adolescenti. Ne ho scritto uno in particolare che ha tutte protagoniste adolescenti. Un film sul potere delle femmine e spero di riuscire a farlo. Nel frattempo ho girato delle serie, dei documentari e ho imparato tantissimo, avendo anche la possibilità di lavorare con delle grandi troupe. Tutte cose che nel mio primo film, che ho fatto con 200mila euro, mi potevo solo sognare. Mi ha veramente fatta crescere a livello registico, tecnico. Poi, non sopporto non lavorare, non riesco a stare senza fare niente.
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