BARI – “Un’avventura, una camminata nel buio senza la certezza di vedere la luce al fondo del tunnel”. Così la regista tedesca Margarethe Von Trotta definisce la sua ultima pellicola, quell’Hannah Arendt che in origine, ci racconta al Bif&st 2013, doveva intitolarsi “La controversia”.
Presentato già a Toronto (“1200 persone in standing ovation”) e dal prossimo autunno nelle nostre sale grazie a Ripley’s, è un coraggioso film che valica il biopic con un sorprendente equilibrio di coerenza teoretica e carica umana. Perché della celebre filosofa che non amava definirsi tale, della giornalista che bucava le consegne e badava alla sostanza più che alla forma, della libera pensatrice allieva di Heidegger (ma anche di Husserl e Jaspers) la Von Trotta sceglie di restituire soprattutto l’anima provocatrice. La stessa che fece scandalo a seguito della pubblicazione nel 1963 di La banalità del male, sul processo al gerarca nazista Eichmann. Un libro che “dopo il mio film, già accolto con entusiasmo in Germania, vende molto più di allora”.
Scuotere le menti, riaccendere interesse verso figure che hanno segnato la storia del pensiero occidentale: è questa la funzione del suo cinema?
Lo spero, e da quello che vedo mi sembra stia andando in questa direzione. Dopo l’uscita del film in Germania gli scritti di Arendt sono stati ripubblicati e sono acquistabili ovunque, e la stessa cosa successe con Rosa Luxemburg, le cui opere prima dell’uscita del mio film (Rosa Luxemburg, del 1986, ndr) erano introvabili e poi sono quasi andate esaurite. Mi piace suggerire allo spettatore attento, dargli uno stimolo e una spinta per saperne di più. Considero un film riuscito quando esci dalla sala con addosso la curiosità incontenibile di “averne” ancora.
Come spiega il successo del film, che all’inizio ha incontrato difficoltà produttive?
Credo sia stato il momento storico giusto per farlo uscire: il film parla di un burocrate-criminale, della banalità del male che oggi è forse quella delle banche, delle istituzioni e della politica da cui tanta gente si sente come in trappola e finisce per rinunciare alla capacità di pensare individualmente. Ma il film parla proprio dell’urgenza di pensare ognuno con la propria testa per evitare catastrofi. E non c’è momento migliore di questo di crisi, allora.
Per interpretare Arendt ha scelto la sua attrice-feticcio, Barbara Sukowa.
E oggi ne sono fiera: ci siamo tenute per mano e sostenute nel timore comune di rappresentare un personaggio di così grande spessore. Ha preso molto seriamente il ruolo, assumendo addirittura un professore di filosofia americano per studiarel le basi del pensiero filosofico, o parlando per mesi con amici e familiari con quell’inglese dal forte accento tedesco tipico di Arendt, così che non suonasse poi falso sul set. La ammiro molto per questa sua tenacia.
Ha in mente un altro film su un personaggio femminile storicamente esistito?
No, basta. Adesso che tutti vogliono affidarmi film biografici, io ho voglia di una commedia. Naturalmente mi affiderò di nuovo alla fedele sceneggiatrice Pam Katz, che ormai considero un Woody Allen al femminile.
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