Per i critici giapponesi è il miglior film straniero del 2013, mentre il ‘New York Times’ lo inserisce nella top ten dell’anno appena trascorso per la capacità di unire cinema e pensiero. Eppure in Italia Hannah Arendt di Margarethe Von Trotta ha faticato a trovare spazio nelle sale. Per questo la Ripley’s ha scelto di portarlo al cinema il 27 e 28 gennaio, in versione originale con sottotitoli, in occasione della Giornata della memoria, in 70/100 sale del circuito Nexo Digital. Poi la pellicola continuerà il suo percorso attraverso le associazioni che lo hanno richiesto e il sistema scolastico, per approdare infine in dvd, abbinato col più celebre (presso il grande pubblico) libro della filosofa ebreo-tedesca, La banalità del male.
Ed è proprio su quel testo che è incentrato il film della regista di Anni di piombo. Nato dalla riflessione sul processo al nazista Adolf Eichmann che ebbe luogo a Gerusalemme nel 1961 e si concluse con la condanna a morte avvenuta per impiccagione. Hannah, che si era rifugiata in America dopo essere sfuggita allo sterminio, volle seguire la vicenda per il ‘New Yorker’, ma il reportage che ne seguì, affondo teoretico nel più grande crimine collettivo della storia più che semplice resoconto giornalistico, suscitò polemiche infuocate e ingiuste. La Arendt venne accusata di giustificare Eichmann, di cui aveva sottolineato la normalità di burocrate, e soprattutto di postulare un coinvolgimento di alcuni ebrei, i capi delle comunità che avevano cooperato con i nazisti. Accusa questa che lei respinse sempre, rispondendo di essersi limitata a raccontare i fatti. Il film, che ha come protagonista Barbara Sukowa, un’attrice da sempre molto amata da Margarethe Von Trotta, si concentra proprio sui quattro anni che vanno dal 1960 al ’64, gli anni del processo e della pubblicazione del libro, ma accenna anche alla sua relazione con Martin Heidegger, il maestro amato e poi rifiutato per la sua adesione al nazionalsocialismo e definito senza mezzi termini “assassino”.
Perché ha scelto di concentrarsi proprio su questo periodo dell’appassionante e ricca biografia di Hannah Arendt?
Insieme a Pam Katz, coautrice della sceneggiatura, eravamo molto indecise su questo punto, non volevamo fare un biopic classico ma non sapevamo che periodo scegliere della sua vita che è tutta molto interessante. Avremmo potuto concentrarci sulla sua fuga in Francia nel ’33, sull’incontro col suo secondo marito Heinrich Blücher a casa di Walter Benjamin a Parigi nel ‘37, sull’internamento nel campo di Gurs nel ’41, da cui riuscì ad emigrare in America insieme al marito con un visto, ma senza passaporto, sulla fuga verso Marsiglia e l’arrivo negli Stati Uniti di questi due tedeschi che non sapevano parlare l’inglese. Come molti intellettuali che venivano dall’Europa e avevano studiato greco, latino e francese, ma non l’inglese, Hannah dovette adattarsi a lavorare presso una famiglia americana. Forse avremmo potuto scegliere di raccontare la sua relazione con Heidegger, come molti si sarebbero aspettati. Avremmo avuto anche meno difficoltà a trovare finanziamenti… Poi abbiamo capito che quei quattro anni erano il modo migliore per mostrare la donna e la filosofa e contemporaneamente avere una comprensione più ampia dei tempi oscuri dell’Europa del XX secolo.
Quali fonti avete utilizzato? Tra l’altro nel film si vedono molte autentiche immagini del processo ad Eichmann.
Ho letto i libri e le lettere di Hannah e ho cercato di incontrare persone che l’avevano conosciuta. Per esempio abbiamo incontrato la sua ex collaboratrice Lotte Köhler (interpretata nel film da Julia Jentsch, ndr) che all’epoca dei nostri colloqui aveva 90 anni ed era ancora in vita, lei ci ha raccontato anche molte storie private sul rapporto tra Hannah e suo marito. Poi effettivamente ci sono le immagini del processo: si può mostrare l’autentica banalità del male solo osservando il vero Eichmann, un attore distorcerebbe la sua immagine. Era un uomo incapace di formulare una singola frase corretta dal punto di vista grammaticale, nella sua cieca lealtà aveva abbandonato una delle caratteristiche che differenziano gli esseri umani dalle altre specie, la capacità di pensare in maniera autonoma. Non era un mostro, ma un burocrate sottomesso, pronto all’obbedienza assoluta.
Hannah Arendt non rinunciò a citare il tema delicato della cooperazione di alcuni ebrei alla deportazione, nonostante in molti l’avessero avvertita che avrebbe sollevato un vespaio.
Se ne era parlato al processo e lei volle riportare quello che aveva visto e sentito. Quando ho girato Rosenstrasse ho letto molto sull’Olocausto e ho trovato tante testimonianze di capi degli ebrei che cooperarono, a volte per il proprio tornaconto a volte nella speranza di aiutare altri ebrei. Erano persone come tutti. Arendt ha infranto un tabù, un po’ come è capitato dopo il ’68, quando nessuno che fosse di sinistra voleva criticare il comunismo. Lei ha scritto il suo libro più importante, quello sul totalitarismo, dove paragona nazismo e stalinismo e noi di sinistra non volevamo accettarlo. Per noi, in quella fase, il comunismo era intoccabile. Dopo la caduta del Muro abbiamo cominciato a ripensare alla sua riflessione, la capacità di essere più indipendenti ci ha fatto capire che Arendt aveva visto delle cose prima di noi.
In questo sta anche la sua attualità?
Per questo è diventata tanto importante oggi che ci sono tanti modi di pensare che si basano su ideologie o sulle mode o sono influenzati dai mass media. Dov’è la nostra capacità di pensare con la nostra testa? Anche per l’Italia dopo il berlusconismo, forse c’è qualche spunto interessante.
Crede che l’ostracismo di cui fu vittima dopo la pubblicazione della “Banalità del male”, anche in ambiente universitario, sia dipeso in parte dal suo essere donna?
Come mi ha fatto notare il rettore dell’Università americana del Lussemburgo, dove abbiamo girato alcune scene, non ho mai sentito rimproverare un uomo con l’accusa di essere senza cuore e arrogante, come dissero a lei.
La relazione con Martin Heidegger appare nel film attraverso alcuni brevi ma significativi flash back.
Non volevo mostrare il periodo in cui furono amanti, mi sembrava un cliché parlare della relazione tra l’ebrea e il nazista. Ma il rapporto con Heidegger tocca un punto importante. Se è vero che Eichmann è definito da Hannah come colui che non sa pensare e che quindi perde la sua umanità, se è vero che lei è convinta che il pensiero ci protegga dalle catastrofi, è anche vero che Heidegger, maestro del pensiero, è caduto nella trappola del nazismo. Forse anche Hannah, come Rosa Luxemburg, era un’utopista, cercava di spiegare i tempi oscuri con l’utopismo della filosofa che non riesce a concepire che il pensiero possa fare il male.
Come è stato accolto il film?
È andato molto bene ovunque, al di là delle aspettative. E ha fatto molto discutere. In Germania sono saltati fuori gli storici che hanno dimostrato che Eichmann mentì al processo. In Francia è stato Claude Lanzmann ad attaccarlo. In America sono riesplose le polemiche degli anni ’60. Paradossalmente in Israele no, perché il suo libro, a lungo bandito dopo l’interdetto di Ben Gurion, è uscito solo nel 2002 e non ci sono stati gli attacchi alla sua figura. Anzi, Israele è coproduttore del film.
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