Riprende il suo dialogo ininterrotto con Pier Paolo Pasolini e anche il titolo, Romanzo di una strage, viene da lì. Da un articolo apparso sul Corriere della sera il 14 novembre del ’74, “Cos’è questo golpe? Il romanzo delle stragi”, uno di quei memorabili scritti corsari in cui Pasolini diceva a chiare lettere: “Io so, ma non ho le prove”. Mostra prove e indigi invece il film di Marco Tullio Giordana, che dopo Pasolini un delitto italiano (1995) torna a occuparsi dei nostri misteri ingloriosi e dopo La meglio gioventù (2003) torna a parlare alla sua generazione. Ma anche alle successive, perché si spera che i più giovani vedano il film molto voluto da Riccardo Tozzi (Cattleya), che inizialmente aveva pensato di affidarlo a Michele Placido e poi ha trovato in Giordana il regista ideale. “Un grande film con attori straordinari”, come dice il cineasta milanese, ora impegnato anche a teatro con The Coast of Utopia. Tra questi attori – impossibile citarli tutti – Valerio Mastandrea nei panni del commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio del ’72 sotto casa sua, al culmine di una campagna di accuse condotta da Lotta continua, che vedeva in lui l’assassino di Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino), l’anarchico che volò dal balcone della questura di Milano tre giorni dopo l’esplosione della bomba. Il film, pur con un respiro ampio e quasi didattico, si concentra proprio sui due antagonisti e sul loro rapporto – c’è anche un significativo scambio di libri per Natale – cercando in qualche modo di rendere giustizia a queste due figure. Ma si parla molto anche delle indagini insabbiate, della pista anarchica e di quella nera, legata a neofascisti veneti, della strategia della tensione, del ruolo di alcuni poteri dello Stato e degli americani. Aldo Moro (Fabrizio Gifuni) è tra le personalità chiave di questo racconto di cui l’eplosione del 12 dicembre ’69 è solo l’episodio centrale.
Gli sceneggiatori Rulli & Petraglia si sono basati, tra l’altro, sul libro inchiesta di Paolo Cucchiarelli “Il segreto di Piazza Fontana” alla ricerca di una verità possibile: “La storia di Piazza Fontana – spiega Stefano Rulli – è la storia di troppe sentenze che si sono sovrapposte. Quindi abbiamo lavorato anche su indizi. Ad esempio l’incontro tra il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e Aldo Moro rimanda al libro di Fulvio Bellini, uno storico che aveva rapporti coi servizi inglesi all’epoca in conflitto con gli americani. Pochi giorni prima dell’attentato su The Observer apparve un articolo in cui si ventilava la possibilità di un colpo di stato in stile greco anche in Italia. Moro visse questa tragedia e questo clima cercando di evitare una spaccatura del paese”.
“Romanzo di una strage”, dunque, evoca il titolo dell’intervento di Pasolini piuttosto che il lato romanzesco, fantasy, alla “Romanzo criminale”.
Pasolini allora diceva: io so, ma non ho le prove. Noi, dopo 40 anni, abbiamo le prove e possiamo fare i nomi. Inoltre “noi sappiamo” è più forte di “io so”. Se la spiegazione della tragedia di Piazza Fontana entra nel dna di un popolo come è stato per il Risorgimento, evoca in noi la nostra appartenenza, la nostra radice. Piazza Fontana non può restare un punto di domanda. Il film si rivolge ai ragazzi più giovani che hanno il diritto di sapere. Pasolini, all’indomani del 12 dicembre, scrisse una poesia, ‘Pathmos’, dedicata alle 17 vittime, descrivendole una per una, dando corpo a una storia. La sua intelligenza era capace di decrittare gli avvenimenti.
Il progetto del film nasce da Riccardo Tozzi, che gliel’ha proposto.
Sì, nasce dall’intuizione di Tozzi, ma il produttore mi ha permesso di farlo in assoluta libertà.
Perché un film come questo arriva quarant’anni dopo i fatti che racconta, mentre “Salvatore Giuliano” di Rosi, per citare un precedente illustre, nasceva molto più a ridosso di quei fatti?
Non posso rispondere per il cinema italiano, ma solo per me. Io non l’avrei saputo fare prima, ho dovuto liberarmi di alcuni pregiudizi. Su Piazza Fontana c’è stata molta disinformazione, depistaggi in cui sono caduti quasi tutti i giornali di opinione di allora. Fa eccezione Marco Nozza, il cronista del ‘Giorno’, un giornalista che non legge le veline e i comunicati e in cui ho voluto sintetizzare cinque o sei figure.
Il film affida le conclusioni a un serrato colloquio tra Calabresi e il prefetto D’Amato, in cui quest’ultimo vorrebbe ridurre la ricostruzione del commissario al campo delle ipotesi fantasiose e tutte legittime. Lei mostra certamente la verità ma sta molto attento a mantenersi in equilibrio tra le diverse interpretazioni.
Ho cercato di mettermi nei panni di tutti, la maturità mi ha portato una capacità scespiriana di entrare dentro ognuno di questi personaggi controversi. La politica insegna a separare e semplificare, gode nel dividere, l’arte invece si mette anche nei panni del carnefice, analizza e approfondisce. Ho imparato a guardare in questo modo già col film su Pasolini. Non formulare il giudizio prima, ma percorrere tutte le tappe.
Ci sono state varie polemiche preventive su “Romanzo di una strage”.
Le chiamo le polemiche precox. Se non hai visto il film, stai zitto. Alcuni vorrebbero adesso il mio anatema contro Paolo Cucchiarelli. Nel suo libro ci sono tre cose su cui non sono d’accordo e 900 che condivido. Senza quel libro, mancherebbero dei pezzi di questo film. Quindi, mi dispiace, niente anatema.
Poi c’è stato l’intervento di Mario Calabresi, figlio di Luigi e direttore della ‘Stampa’, che ha visto il film è ne ha criticato alcuni aspetti, dicendo ad esempio che lascia l’idea di una nebulosa oscura anziché di una verità. Inoltre non ritrova suo padre nel personaggio disegnato da Mastandrea, che ritiene a una dimensione, senza leggerezza.
Mario Calabresi non potrà ritrovare suo padre in nessun film, vista la violenza che ha subìto nella sua infanzia, anche se sua madre Gemma ha protetto i tre figli dal nutrire rancore. Comunque un suo giudizio non può essere sereno, ci mancherebbe altro! Io ho perso mio padre a 8 anni e ogni tanto lo sogno ancora. Cosa può provare chi è rimasto orfano a 2 anni ed è stato anche considerato il figlio dell’assassino torturatore? Io ho voluto rappresentare la figura pubblica e non il Luigi Calabresi privato.
Lei, tra l’altro, lo conobbe personalmente.
E’ vero, fui interrogato da Calabresi perché avevamo occupato il liceo Berchet a Milano. Era un uomo colto, laureato, cortese, sapeva tutto di Bakunin, era una mosca bianca tra i poliziotti. Quando c’era Calabresi non volavano gli schiaffi, quando lui usciva dalla stanza sì. Io non ero nella stanza della questura quando morì Pinelli e i presenti sono tutti morti, tranne il tenente dei Carabinieri Savino Lograno, abita a Torino, andateci a parlare…
Lei non mostra il momento della morte “accidentale” di Pinelli ma solo gli attimi prima e quelli immediatamente successivi, con la costruzione della versione ufficiale, mentre Calabresi, a quanto si vede nel film, non sarebbe stato presente al momento della caduta.
Io posso solo fare supposizioni sulla morte di Pinelli: certo non si è suicidato, certo non è caduto per sbaglio. Anarchico pacifista e contrario alla violenza, era andato in questura di sua volontà, col motorino. Non mangiava né dormiva da tre giorni, veniva trattenuto illegalmente nella speranza che sconfessasse Valpreda e tirasse in ballo Giangiacomo Feltrinelli, ma lui rifiutava di collaborare. Volò qualche ceffone, forse è caduto dalla ringhiera molto bassa. Non so se venne buttato di sotto intenzionalmente, ma dal palazzo di fronte si poteva vedere tutto quello che accadeva in quella stanza, quindi ne dubito. Però, subito dopo la sua morte, la questura iniziò con le bugie. Il patto si è rotto lì, non con la strage, il veleno è stato buttato tutto addosso a Calabresi. E’ come se tu giocassi a carte con tuo padre e scoprissi che bara. A quel punto o cadi in depressione e ti buchi o pensi che devi barare anche tu. In una comunità c’è bisogno che tutti giochino a carte scoperte, se qualcuno comincia a fare il furbo anche gli altri, i più fragili, si sentono autorizzati. Nella stanza di Calabresi si ruppe quel patto e l’opinione pubblica non credette neanche per un istante che Pinelli si fosse suicidato. Anzi, abbiamo tutti a lungo creduto che l’avesse buttato giù Calabresi, invece il commissarrio non era nella stanza. Io ci credo e lo mostro nel film.
Il film inizia con una manifestazione dell’autunno caldo in cui perse la vita l’agente Antonio Annarumma. Perché?
Ho ricostruito una mia esperienza personale, ero alla manifestazione in cui è morì Annarumma. Preparando il film sono stato in questura e ho avuto accesso a vari incartamenti, ma quello su Annarumma non c’è e manca anche quello su Pinelli. I giornali scrissero che Annarumma fu ucciso da un tubo innocenti scagliato da un manifestante, ma perché questo tubo non è mai stato repertato? È strana anche questa morte. C’è qualcosa di sbagliato.
Non teme che qualcuno la possa accusare di aver fatto un film ideologico?
Bisogna fare i conti soprattutto col cinema e io questo lo considero un grande film, mentre l’ideologia mi sembra che sia morta da un pezzo. Quando andrò di là, Kubrick, Bunuel e Bergman mi chiederanno che cosa ho fatto, l’esame di ammissione me lo faranno loro, non Togliatti o De Gasperi.
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