E’ un Giordana quasi inarrestabile nell’incontro con la stampa. Ce l’ha con un paese, il nostro, dove i vecchi fanno di tutto per non cedere il passo ai giovani, tant’è che accetta di buon grado la collocazione fuori concorso del suo Sanguepazzo. “Mi sento al posto giusto, io remoto che parlo di un’epoca remota”. Del resto l’essere fuori della mischia va bene per un regista veterano di Cannes, visto che è la quarta volta che viene.
Ha scelto di esserci con un melodramma dalle tinte fosche e tragiche, costruito intorno alla tragica vicenda di due famosi attori del Ventennio: Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, cocainomani e compromessi con il regime di Salò, condannati a morte dai partigiani subito dopo il 25 aprile. Luca Zingaretti è l’istrionico ed eccentrico Valenti, Monica Bellucci è Ferida la donna da lui dipendente, che lo protegge ma è anche devota a Golfiero, il regista omosessuale aristocratico che ha rapporti con la Resistenza.
Il film, che esce il 23 maggio con 01, oltre a una versione per la sala ne ha una per la tv, più lunga di 32 minuti, più spregiudicata, dice il regista, con alcune scene che confermano le caratteristiche dei personaggi principali.
Quando pensò per la prima volta a questa storia?
Devo andare molto indietro nel tempo, quando avevo 15/16 anni. Ricordo aver visto in tv, credo, La corona di ferro, uno dei film interpretato da Osvaldo Valenti e Luisa Ferida e all’apparire di questi due attori mia madre diede in escandescenze. Quando le chiesi perché mi raccontò la vulgata. Due attori celebri durante il fascismo che avevano aderito a Salò e si erano resi complici dei torturatori fascisti di Villa Triste a Milano e che, per questa ragione, erano stati fucilati alla fine della guerra. Questa vicenda allora mi incuriosì molto e anni dopo pensai che era una bella storia da raccontare al cinema, per la complessità della vicenda e delle responsabilità vere o presunte.
Un moderno melodramma?
Un film che tocca un nervo scoperto della nostra storia, che suscita delle reazioni quasi in automatico. Un film che parla del cinema italiano che ha avuto le sue basi industriali volute e fondate dal fascismo, il suo limite e la sua forza, e ha conosciuto la vicinanza al regime di uomini di spettacolo.
Ha cominciato a scrivere questa storia più di 25 anni fa con Enzo Ungari e in seguito con Leone Colonna, poi scomparsi.
In tutti questi anni è stato difficile trovare i soldi per realizzare un film così complesso e costoso. In passato ho avuto anche la possibilità di dirigere una produzione americana con due star, ma vi ho rinunciato perché ai produttori non interessava per nulla il tema fascismo e antifascismo e alla fine ne sarebbe uscito un melodramma hollywoodiano stile anni ’30.
Il film contiene elementi sia di verità storica sia di finzione?
Per le generazioni più giovani questo film potrebbe essere di pura invenzione. Anzi propongo di vederlo come un film di pura invenzione, perché ho usato i materiali della storia con molta libertà. Non ho voluto ricostruire la vera storia di Valenti e Ferida. Cerco di spiegare che il sanguepazzo più che il loro è quello di un’Italia che è impazzita nella furia dell’occupazione, nella divisione in due del paese, nella Resistenza che fu guerra civile, nel collaborazionismo, la miseria, l’eroismo, il dolore e il lutto. Un’Italia che va raccontata anche nelle pieghe più oscure. Noi ne parliamo con gli stessi toni accesi perché questa guerra civile non è finita. C’è un’inerzia di questa guerra civile che sta nel modo malato di trasmettere la memoria oppure di non trasmetterla. Così si usano parole vuote, ormai senza senso.
Quali?
Ho sentito usare negli ultimi decenni a mo’ di insulto: comunista, fascista. Che è come dire protocristiano, protomartire, legittimista o sanfedista. Insomma qualcosa di molto lontano, di molto antico. Ma tutto questo è morto il 25 aprile del ’45. Queste definizioni sono diventate delle parole vuote. Se io non credo più che quelli sono comunisti, non posso neppure più credere che quelli siano fascisti, a meno che si comportino come tali. Cosa che mi aspetto anche: sono pronto a lottare di nuovo perché vengo da una famiglia di combattenti della Resistenza e non penso di tradire questo imprinting. Ma non voglio allo stesso tempo che tutto ciò agisca in me, artista, come un ostacolo quando indosso i panni dell’altro. Ogni volta che racconto una storia dove agiscono tanti personaggi, cerco di entrare nella testa di tutti i personaggi che racconto, altrimenti mi sembrerebbe anche di dare ai miei attori delle istruzioni controproducenti.
Farà discutere la frase finale che pronuncia il partigiano dopo l’esecuzione dei due attori?
Innanzitutto Luigi Lo Cascio non la dice con sarcasmo. A uno dei nostri migliori attori ho chiesto di dire una battuta su cui posa il baricentro del film. Lo Cascio interpreta un professorino del liceo, probabilmente un intellettuale, che forse non sa neanche sparare bene. “E’ andata, abbiamo fatto giustizia”, dice, ma la frase è interrogativa, lui ha il dubbio se quello che ha fatto sia veramente giustizia. Ma quello non fu un atto di giustizia. La madre di Luisa Ferida ottenne la pensione come vittima di guerra, e quindi l’attrice fu riconosciuta totalmente innocente. Quanto a Valenti non posso produrre un documento così ufficiale, ma nessuno può produrmene uno contrario di colpevolezza, altrettanto assoluto.
Le sue fonti sono state dirette?
Quando ho cominciato a scrivere questo film, 25 anni fa, parlai con i partigiani protagonisti del fatto, tranne con due che non c’erano più. Erano testimonianze alcune aspre, altre singhiozzanti. Vi assicuro che quella scena finale non me la sono inventata. La domanda che si pone Lo Cascio è bene che qualcuno se la faccia. Se qualcuno si sente offeso mi dispiace per lui, ma è lontano, residuale da quello che dobbiamo fare per il futuro. Perché se non ci domandiamo quali sono i limiti della giustizia, quando questa diviene sommaria e quando è giusta, allora è un brutto guaio.
Lei come si sarebbe comportato?
Nello stesso modo, rimanendone forse ferito per tutta la vita, come le persone che ho incontrato, ma avrei fatto quel gesto perché capisco il discorso che fa il commissario politico interpretato da Marco Paolini: bisogna colpire dei responsabili simbolici per assolvere tutti gli altri. Perché nel nostro paese fu combattuta una guerra civile, anche se dispiace questa parola, metà paese contro l’altra metà, anche se sopra le loro teste succedeva qualcosa. E quando poi vinci devi fare qualcosa di catartico, di riparatore, devi voltare pagina il più in fretta possibile e profondamente. Altrimenti questa pagina si riaprirà di continuo, e tu avrai dei ragazzi che non sanno assolutamente nulla e che ti fanno poi il saluto romano sulle scalinate del Campidoglio. Bisogna chiudere con questo, non per stendere un velo pietoso e dire siamo stati tutti uguali, tutti buoni: i ragazzi di Salò e i partigiani. Ma avere il coraggio di raccontare tutte le storie. Capisco che non lo possa fare la politica, ma bisogna impedire di farlo agli artisti, che devono essere liberi di fare qualsiasi cosa. Come diceva Bataille: più ci si allontana dal male e meno l’arte è interessante.
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